PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 30-09 AL 04-10

Mercoledì 30 settembre ore 21  –  LA PRIMA LUCE di V. Marra  – ingresso unico € 5

Venerdì  02 ottobre ore 21  –  LA PRIMA LUCE di V. Marra

Sabato 03 ottobre ore 18.30  –  INSIDE OUT di P. Docter – ingresso unico € 4

Sabato 03 ottobre ore 21  –  LA PRIMA LUCE di V. Marra

Domenica  04 ottobre ore 16.30  –  INSIDE OUT di P. Docter – ingresso unico € 4

Domenica  04 ottobre ore 18.30 e 21 –  LA PRIMA LUCE di V. Marra

ingresso unico € 4 proiezione delle 18.30

LA PRIMA LUCE
Vincenzo Marra  VINCENZO Marra è in concorso alla Mostra di Venezia nella sezione “Giornate degli autori” con il film “La prima luce”. Nel cast, Riccardo Scamarcio, la cilena Daniela Ramirez e Gianni Pezzolla, il bimbo di otto anni figlio di due persone che si amano, si combattono, si perdono. Nelle sale, uscirà il 24 settembre.

Marra, le sue storie spesso nascono in forma di documentario. Anche in questo caso?

“È un film di finzione ma direi che è più reale del re. I figli, spesso minorenni, sottratti a un genitore dall’altro genitore sono un argomento di estrema urgenza. La potenzialità e l’originalità della vicenda non ne limitano l’attualità. È un argomento mai trattato al cinema prima di adesso: è globalizzazione pure un dramma che oltrepassa le frontiere. Documentandomi, ho scoperto che nel Nord degli Usa una classifica ha stabilito che la paura di perdere i propri figli precede la fobia del terrorismo. Un elemento mica da sottovalutare. Grazie alla verginità di tali fatti ho potuto giocare con i generi e creare tensione nello spettatore, al di là della cronaca; ed è importante portare il film a Venezia. È la mia settima volta alla Mostra, momento indispensabile del mio mestiere. Io non vado in laguna per passeggiare e bere drink”.
“La prima luce” è ispirato ad avvenimenti che ha vissuto?
“Ero in un bar a Roma e un uomo mi confidò la sua sventura: tornò a casa e la moglie e il figlio erano scomparsi. Chi subisce un dolore così vuole raccontarlo ad altri per tentare la catarsi. Da quella confessione ho immaginato il mio film, che non ha uno sviluppo ultra negativo come impone la tradizione italiana”.
 INSIDE OUT
Inside Out è un film da vedere e rivedere. Ingegnoso, divertente, talvolta struggente, ritmato e – mai parola è stata più azzeccata – emozionante. Con incassi attorno ai 750 milioni di dollari nel mondo, è uno dei colpi migliori assestati dalla Disney-Pixar. Non è certo un caso che alla regia ci sia lo statunitense Pete Docter, già sceneggiatore di Toy Story – Il mondo dei giocattoli eWALL•E e premio Oscar al miglior film d’animazione per il dolcissimo UP. Una nuova nomination all’Academy Award è assicurata. Chissà che non giunga anche una nuova statuetta. Ad aiutarlo come co-regista Ronnie Del Carmen.
Inside Out ci porta nella testa dell’undicenne Riley. Nel quartier generale, a governare le reazioni della bambina c’è un affiatato e buffo quintetto di emozioni antropomorfe: la leader è Gioia, solare, con corpo da fata; accanto a lei ci sono Tristezza, blu, bassa e tondetta, occhialoni e maglione a collo alto, sempre giù di morale; Paura, che tiene in guardia Riley, è viola e magrissimo e pronto a drammatizzare su tutto; Rabbia è tarchiatello e ovviamente rosso, in camicia e cravatta; Disgusto è verde e stilosa. Sono solo cinque le emozioni immaginate dalla Pixar alla guida dell’umanità eppure sono una sintesi perfetta.
In fase di preparazione “ci siamo divertiti a leggere Freud e Jung… pur non essendo letture leggere. La verità è che nessuno sa come l’uomo veramente funzioni, e per questo ci sono tante teorie e filosofie, spesso in conflitto. La nostra è una versione un po’ più pop di Jung”, ha detto Docter a Roma per presentare il cartoon. Non è stato facile decidere quali emozioni rendere protagoniste: “Avevamo provato orgoglio, speranza, ‘schadenfreude’ (piacere procurato dalla sfortuna degli altri, ndr) ma ci siamo concentrati su cinque. Sono un po’ i nostri sette nani”..

CINEFORUM 10 + 2 (ottobre 2015-gennaio 2016) – EVENTO SPECIALE

martedì 06 ottobre ore 21 apertura cineforum ottobre 2015 -gennaio 2016

anteprima del film I SOGNI DEL LAGO SALATO di Andrea Segre

(VENEZIA 72 – Giornate degli Autori) – sarà presente in sala il regista

il film sarà proiettato anche mercoledì 07 e venerdì 09 ottobre alle ore 21

Il Kazakistan oggi vive l’euforia dello sviluppo che l’Italia non ricorda nemmeno più.
Eppure la sua crescita è legata a doppio filo con l’economia italiana.  La crescita dell’economia kazaka, pari al 6% annuo (un tasso che l’Italia ha avuto solo negli anni ‘60), è basata in gran parte sull’estrazione di petrolio e gas. L’ENI ha un ruolo chiave nella gestione dei giacimenti kazaki e molti sono gli italiani che lavorano in Kazakistan, in particolare nelle regioni intorno al Mar Caspio, dove è stato girato questo film.
Le immagini delle grandi steppe euroasiatiche, degli spazi infiniti e ordinati delle terre post- sovietiche si intrecciano nel film e nella mente dell’autore con le immagini dell’Italia anni ‘60, trovate sia negli archivi ENI che in quelli personali girati dalla madre e dal padre di Andrea Segre, che negli anni ’60, ventenni, hanno vissuto l’euforia della crescita.
Viaggiando tra Aktau e Astana, tra le steppe petrolifere a ridosso del Mar Caspio e l’iper-modernità della neo capitale, il film si ferma ad ascoltare le vite e i sogni di vecchi contadini o pastori e di giovani donne le cui vite sono rivoluzionate dall’impatto delle multinazionali del petrolio nell’economia kazaka. I loro racconti dialogano a distanza con quella di uomini e donne italiane che cinquant’anni fa vissero simili emozioni e speranze.

http://www.zalab.org/progetti-it/115/#.VfsKrdLtlBd

 

PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 22-09 AL 26-09

Mercoledì 23 settembre ore 21  –  TAXI TEHERAN di J. Panahi  – ingresso € 4,00

Venerdì  25 settembre ore 21  –  MARGUERITE di  X. Giannoli (VENEZIA 72 – In Concorso)

Sabato 26 settembre ore 21  –  SEI VIE PER SANTIAGO di  L. Smith – ingresso € 4,00

Domenica  27 settembre ore 18.30 (ingresso € 4,00) e 21MARGUERITE di  X. Giannoli (VENEZIA 72 – In Concorso)

 Taxi Teheran

Jafar Panahi sfida nuovamente il regime. Il regista de Il palloncino bianco e Il cerchio, condannato nel 2010 a sei anni di reclusione e a venti di inattività per la partecipazione ad azioni di protesta contro il governo iraniano, riesce a dribblare la censura piazzandosi, solo, alla guida di un taxi, con una telecamera fissata al cruscotto.
Da lì – regista e autista – lancia uno sguardo acuto e senza filtri alla variegata fauna umana di Teheran: attraverso storie e atteggiamenti dei passeggeri che scendono e salgono dal taxi, tesse un quadro articolato e di complessità disarmante che ritrae non solo le contraddizione della sua città e di un paese ancora stretto nella morsa dei tabu e dei divieti, ma anche un’umanità che nonostante tutto continua a vivere di paure e di ideologie (vecchie o nuove), di passione e di emozioni.
Il cinema ai tempi della censura. Ovvero come un regista di fama internazionale può esprimersi quando il suo paese glielo ha vietato.
Finto documentario, Taxi Teheran ha in realtà alla base sceneggiatura e attori, nonostante l’impostazione estetica di spiazzante semplicità. Così come Jafar Panahi, gli attori ingaggiati hanno rischiato a loro volta andando contro i dettami del regime. Protetti (ma solo in parte) dall’anonimato concesso dalla totale assenza di credit, si sono accomodati sul sedile di un taxi e, di fronte alla fissità di una videocamera, hanno accettato di ritrarre le mille contraddizioni di Teheran.
Dal venditore clandestino di film hollywoodiani ed europei in dvd dall’animo cinefilo alle anziane signore che vanno di fretta con una boccia di pesci rossi fino al ferito che deve essere portato in ospedale assistito dalla moglie e che, ripreso dal telefono del regista, fa testamento: l’esistenza scorre davanti al parabrezza e allo specchietto retrovisore di un’auto che è unico set e che, metaforicamente, ha Panahi alla guida così come il film lo ha alla regia.
Con un’unica concessione biografica: la (vera) nipotina del regista, saccente e curiosa, che Panahi va a prendere a scuola. E che, senza lo zio, era a Berlino lo scorso inverno per ritirare l’Orso d’oro con cui il Festival ha premiato il coraggio e l’originalità di un film che non avrebbe dovuto essere girato. Dando voce alla passione cinefila e narrativa che si oppone a ogni totalitarismo.
Cinema militante, insomma, ma senza dare troppo l’impressione di esserlo. Lo sguardo di Jafar Panahi è dolce e guarda con condiscendenza le miserie e le convinzioni, ma anche quella vitalità nutrita di speranza che è motore del vivere quotidiano, del consumato “tirare avanti” pur fra le difficoltà di ogni giorno. Certo, l’impostazione narrativa risulta di difficile digeribilità artistica: è arduo appassionarsi di fronte alle vicende di illustri sconosciuti che aprono una portiera per salire e la riaprono poi per scendere dopo aver snocciolato frammenti di vita, di ideologia, di follia a volte.
Ma è proprio l’assenza di giudizio e di sarcasmo nello sguardo del regista che riesce a oliare i rugginosi meccanismi di un film così semplice in apparenza, eppure così ostico: la finzione mostrata da Panahi sembra superare in realismo la verità stessa. Una verità di cui il regista, seduto alla guida, sembra mettersi al servizio così come fa un taxista al servizio dei suoi passeggeri. Portandoli a destinazione e ascoltando le loro storie, senza suggerire loro dove andare e – soprattutto – senza supponenza di fronte alle loro debolezze.
Come a ricordare che, in fondo, siamo tutti sulla stessa barca. O sullo stesso taxi.

 Sei vie per Santiago (Walking the Camino)

Viaggiare significa lasciare a casa una parte di sé, per cercare tra le vie del mondo tutte le risposte intrappolate nei meandri del cuore; e al nostro ritorno, non saremo più gli stessi.
Lydia B. Smith vuole raccontare proprio questo attraverso il documentario Sei Vie per Santiago – Walking the Camino, in cui la filosofia del viaggio acquista un plus valore poiché va ad amalgamarsi nel contesto sacrale del pellegrinaggio, del cammino fatto a piedi, in una strada aspra e meravigliosa, che da Saint Jean Pied de Port attraversa il territorio francese e spagnolo, passando da Pamplona a Burgos, dal Convento di Sant’Antonio a La croce di Ferro e così via per ben 800 km, fino a raggiungere Santiago Di Compostela. Un tragitto conosciuto fin dal Medioevo, tra l’altro dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, in cui la regista riversa, come sulla tavolozza di un pittore, personalità differenti, ognuno con la propria battaglia, ognuno perso in una strada che ha bisogno di esplorare, spesso senza volerlo o senza saperlo.
Così Annie si lascia guidare dalla spiritualità e dalla competitività di stare al passo con gli altri, rendendosi infine conto che il suo corpo necessita di un passo lentissimo e meraviglioso, perché la vita va assaporata a piccoli sorsi. Per Wayne percorrere il Cammino di Santiago equivale ad onorare la memoria della moglie e nel rimembrare la sua assenza si fa accompagnare dal prete Jack. Misa ha intrapreso la sua lunga passeggiata pensando di ritagliarsi un momento per sé e restare sola, ma William sembra averle scombinato i piani! La tenace brasiliana Sam ha bisogno di ritrovare la forza e prendere in mano la sua esistenza; Thomas lo fa per sport, mentre Tatiana è spinta da una fede incrollabile e con coraggio si cimenta in questo viaggio col figlio di 7 anni e col fratello ateo Alexis, che spera di cambiare, ma alla fine sarà lei a trovarsi diversa.
La macchina da presa si muove con poetica destrezza tra i fili d’erba commossi di rugiada, prati illuminati dal sole, distese di grano che danzano al vento e piccoli ostelli in cui rifugiarsi con l’anima e il corpo, condividendo non solo il cibo, ma anche ansie, dolori, aspettative e gioie.
Credo di essere nata per fare questo film – racconta la Smith – Percorrendo il Cammino mi sono resa conto di quanto sia magico e sacro… non pensavo che sarei stata in grado di captare la sua magia. È un cammino verso il cuore, verso quello che c’è dentro.
La pellicola sa convogliare gli spettatori verso il ghirigori della storica via dei pellegrini, con l’aiuto di una colonna sonora spirituale, in grado di sintonizzarsi perfettamente al battito del cuore. Fa venire voglia di abbandonare tutto il caos della routine quotidiana, mettere da parte i rancori accumulati, le imprecisioni di una vita già programmata; azzerare il rumore del bla bla bla di fondo e alzare unicamente il volume della vita che scorre dentro: fluida, libera, già conscia di quale sia la sua meta.
La regista americana sa prenderci per mano e insegnarci che ognuno ha il suo passo, ma che tutti alla fine raggiungono la vetta; sa farci capire, senza giri di parole e filosofie trascendentali, che la tutta la nostra vita è un viaggio alla scoperta di noi stessi e che dietro la fine si cela sempre un nuovo inizio.

 Marguerite

“Ci sono due modi di vivere la vita, la si può sognare o la si può realizzare”. Quale delle due strade abbia scelto la protagonista di Marguerite forse è solo un dettaglio, un gingillo inutile rispetto all’immensità nella quale l’opera ci risucchia, prendendoci per mano e coinvolgendoci in un danza folle, sfarzosa, comica come solo la drammaticità di una mente ambiziosa può essere, ed esilarante come la voce stridula della contessa, che canta, urla strappando suoni orfani di note attirando su di sé l’attenzione che basta a catapultarci nel suo castello.
Siamo nel 1921, a pochi chilometri da Parigi e l’aristocrazia si riunisce, come di consueto, nella dimora di Marguerite Dumont (Catherine Frot), in cui la musica classica è un pretesto per opere di beneficenza. Ma chi è questa bella donna che possiede in casa abiti di scena, libretti d’opera e animali da compagnia strambi quanto fondamentali per le sue apparizioni (dal boa albino al pavone)? Nessuno la conosce bene, però tutti gli ospiti sanno che è molto ricca e che ha dedicato una vita intera alla sua più grande passione: la musica. Piccolo dettaglio, ahimè, è più stonata lei di una campana! Il che provoca un’ilarità tacita tra i suoi ammiratori, i quali la incoraggiano con applausi e omaggi floreali, facendole credere di essere una diva.
……
Una pellicola divertentissima, con musiche mozzafiato e una scenografia stellare, capace di trasportarci davvero nell’Epoca d’Oro degli anni Venti, in quella Paris così luminosa, viva di cultura fluida e ideologie nuove, che però nasconde bene l’atrocità della solitudine e il marcio incallito di chi non ha il coraggio di dire la verità.
Marguerite, la cui figura tra l’altro si ispira ad una donna davvero esistita, crea adagio un mondo fatto di spettacoli, teatri, emozioni mai vissute se non tra le camere chiuse della sua mente e un angelo nero – il maggiordomo Madelbos (Denis Mpunga) – che sa custodire la sua follia, cullarla tra le braccia e preservarla dal male che la circonda.
Attorno a lei terra bruciata di falsità, maschere su maschere che non si sa più dove accatastarle. La finzione diventa un modo d’essere, si incolla al volto del marito, degli aristocratici amici del circolo fino a non staccarsi più e a creare un tunnel di non ritorno; un labirinto intricato di follie, ambizioni, verità nascoste e… delusione; una, ma fatale.
Cos’è la musica senza un pubblico? Cosa siamo noi senza l’occhio del mondo che perennemente ci mette a fuoco, che ci applaude quando ha voglia di farci sentire importanti, per poi annientarci sputando cattiverie?
Marguerite, pur nella sua delirante esistenza, grida a chiare lettere la salvezza dell’anima, quella che si concretizza nelle passioni che coltiviamo, talvolta non essendone capaci, convinti però che quella è la nostra strada, che ci farà stare bene e spesso, non serve propriamente aver stoffa, quanto possedere il giusto talento per “fingere di fingere”…
Con una citazione che il regista mette in bocca a Madelbos, vi invitiamo a meditare sull’essenza dell’arte, di qualsiasi natura essa sia, nella vita umana; non smettete di amare le vostre passioni, perché esistere è soprattutto insistere!

PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 15-09 AL 20-09

Mercoledì 16 settembre ore 21   

SEI VIE PER SANTIAGO di L. Smith  – ingresso € 4,00

Venerdì  18 settembre ore 21  

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Sabato 19 settembre ore 21    

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Domenica  20 settembre ore 21

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Sei vie per Santiago (Walking the Camino)

Viaggiare significa lasciare a casa una parte di sé, per cercare tra le vie del mondo tutte le risposte intrappolate nei meandri del cuore; e al nostro ritorno, non saremo più gli stessi.

Lydia B. Smith vuole raccontare proprio questo attraverso il documentario Sei Vie per Santiago – Walking the Camino, in cui la filosofia del viaggio acquista un plus valore poiché va ad amalgamarsi nel contesto sacrale del pellegrinaggio, del cammino fatto a piedi, in una strada aspra e meravigliosa, che da Saint Jean Pied de Port attraversa il territorio francese e spagnolo, passando da Pamplona a Burgos, dal Convento di Sant’Antonio a La croce di Ferro e così via per ben 800 km, fino a raggiungere Santiago Di Compostela. Un tragitto conosciuto fin dal Medioevo, tra l’altro dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, in cui la regista riversa, come sulla tavolozza di un pittore, personalità differenti, ognuno con la propria battaglia, ognuno perso in una strada che ha bisogno di esplorare, spesso senza volerlo o senza saperlo.

Così Annie si lascia guidare dalla spiritualità e dalla competitività di stare al passo con gli altri, rendendosi infine conto che il suo corpo necessita di un passo lentissimo e meraviglioso, perché la vita va assaporata a piccoli sorsi. Per Wayne percorrere il Cammino di Santiago equivale ad onorare la memoria della moglie e nel rimembrare la sua assenza si fa accompagnare dal prete Jack. Misa ha intrapreso la sua lunga passeggiata pensando di ritagliarsi un momento per sé e restare sola, ma William sembra averle scombinato i piani! La tenace brasiliana Sam ha bisogno di ritrovare la forza e prendere in mano la sua esistenza; Thomas lo fa per sport, mentre Tatiana è spinta da una fede incrollabile e con coraggio si cimenta in questo viaggio col figlio di 7 anni e col fratello ateo Alexis, che spera di cambiare, ma alla fine sarà lei a trovarsi diversa.

La macchina da presa si muove con poetica destrezza tra i fili d’erba commossi di rugiada, prati illuminati dal sole, distese di grano che danzano al vento e piccoli ostelli in cui rifugiarsi con l’anima e il corpo, condividendo non solo il cibo, ma anche ansie, dolori, aspettative e gioie.

Credo di essere nata per fare questo film – racconta la Smith – Percorrendo il Cammino mi sono resa conto di quanto sia magico e sacro… non pensavo che sarei stata in grado di captare la sua magia. È un cammino verso il cuore, verso quello che c’è dentro.

La pellicola sa convogliare gli spettatori verso il ghirigori della storica via dei pellegrini, con l’aiuto di una colonna sonora spirituale, in grado di sintonizzarsi perfettamente al battito del cuore. Fa venire voglia di abbandonare tutto il caos della routine quotidiana, mettere da parte i rancori accumulati, le imprecisioni di una vita già programmata; azzerare il rumore del bla bla bla di fondo e alzare unicamente il volume della vita che scorre dentro: fluida, libera, già conscia di quale sia la sua meta.

La regista americana sa prenderci per mano e insegnarci che ognuno ha il suo passo, ma che tutti alla fine raggiungono la vetta; sa farci capire, senza giri di parole e filosofie trascendentali, che la tutta la nostra vita è un viaggio alla scoperta di noi stessi e che dietro la fine si cela sempre un nuovo inizio.

Marguerite

“Ci sono due modi di vivere la vita, la si può sognare o la si può realizzare”. Quale delle due strade abbia scelto la protagonista di Marguerite forse è solo un dettaglio, un gingillo inutile rispetto all’immensità nella quale l’opera ci risucchia, prendendoci per mano e coinvolgendoci in un danza folle, sfarzosa, comica come solo la drammaticità di una mente ambiziosa può essere, ed esilarante come la voce stridula della contessa, che canta, urla strappando suoni orfani di note attirando su di sé l’attenzione che basta a catapultarci nel suo castello.

Siamo nel 1921, a pochi chilometri da Parigi e l’aristocrazia si riunisce, come di consueto, nella dimora di Marguerite Dumont (Catherine Frot), in cui la musica classica è un pretesto per opere di beneficenza. Ma chi è questa bella donna che possiede in casa abiti di scena, libretti d’opera e animali da compagnia strambi quanto fondamentali per le sue apparizioni (dal boa albino al pavone)? Nessuno la conosce bene, però tutti gli ospiti sanno che è molto ricca e che ha dedicato una vita intera alla sua più grande passione: la musica. Piccolo dettaglio, ahimè, è più stonata lei di una campana! Il che provoca un’ilarità tacita tra i suoi ammiratori, i quali la incoraggiano con applausi e omaggi floreali, facendole credere di essere una diva.
……

Una pellicola divertentissima, con musiche mozzafiato e una scenografia stellare, capace di trasportarci davvero nell’Epoca d’Oro degli anni Venti, in quella Paris così luminosa, viva di cultura fluida e ideologie nuove, che però nasconde bene l’atrocità della solitudine e il marcio incallito di chi non ha il coraggio di dire la verità.

Marguerite, la cui figura tra l’altro si ispira ad una donna davvero esistita, crea adagio un mondo fatto di spettacoli, teatri, emozioni mai vissute se non tra le camere chiuse della sua mente e un angelo nero – il maggiordomo Madelbos (Denis Mpunga) – che sa custodire la sua follia, cullarla tra le braccia e preservarla dal male che la circonda.

Attorno a lei terra bruciata di falsità, maschere su maschere che non si sa più dove accatastarle. La finzione diventa un modo d’essere, si incolla al volto del marito, degli aristocratici amici del circolo fino a non staccarsi più e a creare un tunnel di non ritorno; un labirinto intricato di follie, ambizioni, verità nascoste e… delusione; una, ma fatale.

Cos’è la musica senza un pubblico? Cosa siamo noi senza l’occhio del mondo che perennemente ci mette a fuoco, che ci applaude quando ha voglia di farci sentire importanti, per poi annientarci sputando cattiverie?
Marguerite, pur nella sua delirante esistenza, grida a chiare lettere la salvezza dell’anima, quella che si concretizza nelle passioni che coltiviamo, talvolta non essendone capaci, convinti però che quella è la nostra strada, che ci farà stare bene e spesso, non serve propriamente aver stoffa, quanto possedere il giusto talento per “fingere di fingere”…

Con una citazione che il regista mette in bocca a Madelbos, vi invitiamo a meditare sull’essenza dell’arte, di qualsiasi natura essa sia, nella vita umana; non smettete di amare le vostre passioni, perché esistere è soprattutto insistere!

 

PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 07-09 AL 13-09

– Mercoledì 09 settembreore 21  –  IN UN POSTO BELLISSIMO di G. Cecere  – ingresso € 4,00
Sabato 12 settembre ore 21  –  TAXI TEHERAN di J. Panahi (ORSO D’ORO FESTIVAL DI BERLINO 2015)
 – Domenica 13 settembre ore 19 e 21TAXI TEHERAN di J. Panahi (ORSO D’ORO FESTIVAL DI BERLINO 2015)

In un posto bellissimo
“In un posto Bellissimo”, opera seconda di Giorgia Cecere,  quotata e apprezzata sceneggiatrice, girato ad Asti quale simbolo della vita sonnolenta e ripetitiva della  provincia italiana,  vuole essere il ritratto femminile di un’anima semplice, che ama delegare ad altri le sorti della propria esistenza. Interprete è l’attrice Isabella Ragonese che da corpo a Lucia, sposata con Andrea, madre e co-proprietaria di un negozio di fiori, dove svolge con diligenza il suo lavoro.
Lucia è imbrigliata in una passività che le fa mandar giù silenziosamente bocconi amari,  tra questi il tradimento del marito. L’incontro imprevisto con un giovane extracomunitario, con il quale instaura un’ embrionale relazione di solidarietà, metterà a nudo la sua autentica interiorità e determinerà una svolta nella sua esistenza…
Ottima l’interpretazione di Alessio Boni, nella parte del marito distaccato, perbene e ipocrita. Il film, nelle intenzioni dichiarate dalla regista in conferenza stampa, vuole essere la raffigurazione di un’ avventura interiore. Se è verissimo, come ha sostenuto la Cecere, che le vicende dell’anima, così ricche di rapide e gorghi, sono quelle che più appassionano, esse hanno un ritmo che nel film non brilla. La lentezza,  la ripetitività delle situazioni, gli spunti lasciati in embrione,  tolgono mordente ad una pellicola ricca di verità, pronta a cogliere in una situazione privata il dramma universale che caratterizza il nostro tempo: quello della paura, dell’incapacità di accogliere il più debole, del rifiuto di andare oltre il proprio ristretto perimetro, in un mondo che invece ci chiama a cambiamenti imprescindibili da un continente all’altro, dove gli extracomunitari, parte integrante del consorzio umano,  non sono che cartina di tornasole della nostra capacità di amare.

 

 Taxi Teheran
Jafar Panahi sfida nuovamente il regime. Il regista de Il palloncino bianco e Il cerchio, condannato nel 2010 a sei anni di reclusione e a venti di inattività per la partecipazione ad azioni di protesta contro il governo iraniano, riesce a dribblare la censura piazzandosi, solo, alla guida di un taxi, con una telecamera fissata al cruscotto.
Da lì – regista e autista – lancia uno sguardo acuto e senza filtri alla variegata fauna umana di Teheran: attraverso storie e atteggiamenti dei passeggeri che scendono e salgono dal taxi, tesse un quadro articolato e di complessità disarmante che ritrae non solo le contraddizione della sua città e di un paese ancora stretto nella morsa dei tabu e dei divieti, ma anche un’umanità che nonostante tutto continua a vivere di paure e di ideologie (vecchie o nuove), di passione e di emozioni.
Il cinema ai tempi della censura. Ovvero come un regista di fama internazionale può esprimersi quando il suo paese glielo ha vietato.
Finto documentario, Taxi Teheran ha in realtà alla base sceneggiatura e attori, nonostante l’impostazione estetica di spiazzante semplicità. Così come Jafar Panahi, gli attori ingaggiati hanno rischiato a loro volta andando contro i dettami del regime. Protetti (ma solo in parte) dall’anonimato concesso dalla totale assenza di credit, si sono accomodati sul sedile di un taxi e, di fronte alla fissità di una videocamera, hanno accettato di ritrarre le mille contraddizioni di Teheran.
Dal venditore clandestino di film hollywoodiani ed europei in dvd dall’animo cinefilo alle anziane signore che vanno di fretta con una boccia di pesci rossi fino al ferito che deve essere portato in ospedale assistito dalla moglie e che, ripreso dal telefono del regista, fa testamento: l’esistenza scorre davanti al parabrezza e allo specchietto retrovisore di un’auto che è unico set e che, metaforicamente, ha Panahi alla guida così come il film lo ha alla regia.
Con un’unica concessione biografica: la (vera) nipotina del regista, saccente e curiosa, che Panahi va a prendere a scuola. E che, senza lo zio, era a Berlino lo scorso inverno per ritirare l’Orso d’oro con cui il Festival ha premiato il coraggio e l’originalità di un film che non avrebbe dovuto essere girato. Dando voce alla passione cinefila e narrativa che si oppone a ogni totalitarismo.
Cinema militante, insomma, ma senza dare troppo l’impressione di esserlo. Lo sguardo di Jafar Panahi è dolce e guarda con condiscendenza le miserie e le convinzioni, ma anche quella vitalità nutrita di speranza che è motore del vivere quotidiano, del consumato “tirare avanti” pur fra le difficoltà di ogni giorno. Certo, l’impostazione narrativa risulta di difficile digeribilità artistica: è arduo appassionarsi di fronte alle vicende di illustri sconosciuti che aprono una portiera per salire e la riaprono poi per scendere dopo aver snocciolato frammenti di vita, di ideologia, di follia a volte.
Ma è proprio l’assenza di giudizio e di sarcasmo nello sguardo del regista che riesce a oliare i rugginosi meccanismi di un film così semplice in apparenza, eppure così ostico: la finzione mostrata da Panahi sembra superare in realismo la verità stessa. Una verità di cui il regista, seduto alla guida, sembra mettersi al servizio così come fa un taxista al servizio dei suoi passeggeri. Portandoli a destinazione e ascoltando le loro storie, senza suggerire loro dove andare e – soprattutto – senza supponenza di fronte alle loro debolezze.
Come a ricordare che, in fondo, siamo tutti sulla stessa barca. O sullo stesso taxi.