Programmazione Cinema Italia dal 21-03 al 26-03

Rosso Istanbul di  F. Ozpetek
Ferzan Ozpetek traspone su grande schermo il suo romanzo autobiografico, “Rosso Istanbul”. Come nel libro, anche nel film il protagonista è un affermato regista turco che un giorno decide di tornare nella capitale turca, dov’è nato e dove ha trascorso infanzia e adolescenza. Un ritorno a casa improvviso, il suo, che gli riserverà non poche sorprese.
Dopo 8 lavori realizzati tutti in Italia, con questo film il regista torna agli esordi della sua carriera, gli anni scanditi da Il bagno turco e Harem Suare. Il cineasta mette l’accento sul tema del ritorno che – dice – “quasi sempre è legato al cambiamento”. E aggiunge: “Tutti abbiamo assistito in questi anni al cambiamento del rapporto tra Occidente e Oriente, non solo politico e sociologico ma anche emotivo che è poi l’aspetto che più mi coinvolge. Perché è cambiato, dopo tanto tempo trascorso in Italia, anche il mio rapporto con Istanbul. Con questo film, attraverso i personaggi ognuno dei quali è una parte di me, tento di ricucire quella relazione”.
Il cast è composto di attori turchi tra i quali il pubblico italiano riconoscerà Serra Yilmaz, una delle ‘muse’ del regista.
È una co-produzione italo-turca prodotta da R&C Produzioni e BKM con Rai Cinema. Produttori Tilde Corsi e Gianni Romoli.
Il lago dei cigni (bolshoi ballet)
Durante la serata è prevista un gustosa sorpresa per gli spettatori
Sotto il chiaro di luna, sulle rive di un lago misterioso, il Principe Siegfried incontra Odette, la donna-cigno sotto incantesimo. Completamente affascinato dalla sua bellezza, le giura fedeltà per sempre. Tuttavia, il principe si accorgerà troppo tardi che il destino ha un altro piano per lui… Un balletto di bellezza sublime e una musica di impareggiabile perfezione, nato proprio al Bolshoi nel 1877. Nel duplice ruolo di Odette/Odile, cioè cigno bianco e cigno nero, la prima ballerina Svetlana Zakharova trasuda vulnerabilità e astuzia attraverso una superba maestria tecnica, affiancata da un potente ed emozionante Siegfried, Denis Rodkin. Con le scene mozzafiato del corpo di ballo del Bolshoi, è il balletto classico per eccellenza.
La marcia dei pinguini: il richiamo di  L. Jacquet
Un pinguino imperatore, dopo aver covato l’uovo che conteneva suo figlio e aver poi tenuto al caldo il figlio stesso dalla nascita fino al raggiungimento di una dimensione ragguardevole, deve insegnargli a diventare adulto e avviarlo verso il viaggio in direzione del Mare Antartico dove il pulcino dovrà imparare a nuotare e a procurarsi il cibo come ogni altro membro del branco. Questo processo di iniziazione non è privo di incognite o di pericoli, dalle tempeste di neve ai crepacci ai predatori, ma papà pinguino non si ferma davanti a nulla e consegna junior al destino per cui è stato messo al mondo.
12 anni dopo il successo mondiale di La marcia dei pinguini, lo scienziato e documentarista francese Luc Jacquet torna a raccontare i più simpatici abitanti dell’Antartide attraverso un lavoro che ha richiesto mesi di osservazioni e di riprese, sopra e sotto la banchisa ghiacciata.
Il risultato è il resoconto accorato e partecipe della vita di una comunità che commuove per spirito unitario e determinazione ad affrontare insieme ogni impresa, dalle lunghe marce di migliaia di componenti alla formazione a testuggine per fare fronte ai venti gelidi del Polo.
Fin dalla prima scena La marcia dei pinguini – Il richiamo conferma l’enorme capacità pittorica di Jacquet, che non si accontenta di documentare l’esistente ma cerca di dargli un senso estetico profondo, aumentando con ralenti, primissimi piani e riprese mozzafiato il valore cinematografico della storia che racconta. Le immagini sono ben lontane dalla distanza oggettiva di certe (pur bellissime) sequenze del National Geographic perché restano impregnate della forte empatia del regista nei confronti delle creature che ritrae.
Questione di karma di  E. Falcone
Giacomo è il primogenito di una famiglia molto facoltosa. Quand’era bambino il padre ha commesso suicidio, lasciando un vuoto che il figlio ha cercato di colmare con studi approfonditi e un’attrazione verso l’esoterismo. Quando un guru gli comunica che il padre si è reincarnato in un certo Mario Pitagora, Giacomo, senza porsi troppe domande, va alla ricerca dell’uomo che dovrà dare un senso e una direzione alla sua vita. Ma Mario è tutto fuorché un padre modello: un imbroglione da quattro soldi pieno di debiti e alienato da moglie e figli.
Dopo il successo del suo lungometraggio di esordio alla regia, Se Dio vuole, Edoardo Falcone torna a proporre una coppia di uomini apparentemente incompatibili e in realtà complementari.
Quel che è interessante, nel caso di Questione di karma, è che il crinale che divide i due è qui costituito dal denaro, terzo protagonista e motore immobile non solo della trama del film, ma della nostra contemporaneità: Giacomo ne ha moltissimo e non sa cosa farsene, Mario cerca continuamente di procurarselo ma non riesce a trattenerlo. Entrambi sono agìti da forze economiche, l’uno perché il lusso in cui è cresciuto, e di cui è beneficiario ma non artefice, gli ha impedito di assumere la guida della propria vita, l’altro perché i miraggi di guadagno facile lo lasciano sprovvisto dei mezzi concreti per occuparsi di sé e della sua famiglia.
Sotto le mentite spoglie della commedia classica in cui uno dei protagonisti cerca di truffare l’altro, in realtà (e forse anche oltre le intenzioni del regista) Questione di karma racconta il modo in cui il denaro ha polarizzato e depotenziato il maschile nel mondo di oggi, dividendo gli uomini fra quelli che cercano di prescinderne, inventandosi una spiritualità “Occidentali’s karma”, e quelli che ne sono schiavi, condannandosi ad una perpetua rincorsa. Non è un caso che l’unico personaggio che sa gestire con misura e intelligenza il possesso economico (e sa generarlo) sia la sorella di Giacomo, Ginevra, che sfugge allo stereotipo della donna in carriera fredda e arrivista per rivelarsi ruolo atavicamente femminile: la levatrice.
La tartaruga rossa di  Michael Dudok de Wit
1 candidatura ai Premi Oscar, Il film è stato premiato al Festival di Cannes e 1 candidatura ai Cesar.
Scampato a una tempesta tropicale e spiaggiato su un’isola deserta, un uomo si organizza per la sopravvivenza. Sotto lo sguardo curioso di granchi insabbiati esplora l’isola alla ricerca di qualcuno e di qualcosa. Qualcosa che gli permetta di rimettersi in mare. Favorito dalla vegetazione rigogliosa costruisce una zattera, una, due, tre volte. Ma i suoi molteplici tentativi sono costantemente impediti da una forza sotto marina e misteriosa che lo rovescia in mare. A sabotarlo è un’enorme tartaruga rossa contro cui sfoga la frustrazione della solitudine e da cui riceve consolazione alla solitudine.
La tartaruga rossa debutta con una tempesta in alto mare. Onde gigantesche frangono con furore lo schermo. Un naufrago è al cuore di quel movimento poderoso. Tra l’uomo e la natura si scatena una guerra ineguale. Il motivo è dato ma il sontuoso film d’animazione di Michaël Dudok de Wit si prende tutto il tempo per rovesciarlo nel suo contrario: un’emozionante storia di riconciliazione e di fusione amorosa. Perché quella che dispiega La tartaruga rossa è una forza misteriosa, qualche volta accogliente e qualche altra riluttante, qualche volta impassibile, qualche altra instabile.
Non siamo davanti all’ennesima storia esotica in cui la natura è mera riserva di accessori a disposizione dell’ingegnosità dell’uomo. Al principio l’uomo fa l’uomo e crede alla chimera di una conquista. Si accanisce, costruisce una zattera di fortuna ma il mare non lo lascia partire. Dieci, cento volte prova a prendere il largo, altrettante è affondato da una presenza enigmatica e invisibile. Ma l’ultimo tentativo gli rivela l’apparenza del suo avversario e la consapevolezza di essere (una) parte del tutto. Frustrati nelle attese e nelle abitudini di spettatori, torniamo a riva, esploriamo col protagonista i luoghi, sperimentiamo la dolcezza dei frutti e la furia brutale delle piogge tropicali, precipitando nel fondo di un crepaccio e rialzandoci perché film e vita possano continuare. Nel modo della natura. Natura con cui il regista stabilisce un legame carnale. Spettatore e protagonista aspettando sulla riva che il tempo scorra, volgendo il punto di vista e scoprendo essenziale quello che credevano ornamentale: i flussi e riflussi della corrente marina, il ritmo dei giorni, il mutare delle stagioni. L’uomo non colonizza quel territorio edenico e selvaggio, niente capanna come avrebbe fatto Robinson Crusoe. Sull’isola tutto resta inviolato, l’uomo è solo di passaggio, una parentesi breve dinanzi all’età dell’universo.
Animato a mano con acquerello e carboncino, La tartaruga rossa respira con la natura e parla la sua lingua. Senza dialoghi, questo racconto contemplativo si esprime attraverso la luce cangiante, il fragore di un temporale, lo schianto di un tuono, lo scroscio di una corrente di acqua dolce, il crepitio del fuoco, l’infrangersi delle onde, il fruscio delle foglie. Il supplemento di animismo giapponese tradisce l’influenza dello Studio Ghibli, l’afflato e la partecipazione di Isao Takahata e Hayao Miyazaki, sedotti dai lavori dell’autore olandese (The Monk and the Fish, Father and Daughter), percorsi da una malinconia tenace che dice della fuga del tempo, degli anni che passano sul bordo del fiume o su un’isola in mezzo al mare.
La tartaruga rossa è un’opera semplice e metaforica che disegna la vita attraverso le sue tappe (ostacoli, scoperte, solitudine, amore, genitorialità, vecchiaia, morte) ed esprime un rispetto profondo per la natura e la natura umana, veicolando un sentimento di pace e ammirazione davanti al suo mistero. Rivelazione sospesa tra terra e mare, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, La tartaruga rossa è drammatizzato con la sola forza del disegno, dei colori, dei movimenti, della musica che interpreta e amplifica la purezza delle linee.
Tra oriente e occidente si realizza il sogno di un disegnatore solitario che si spinge per la prima volta al di là dei limiti del formato corto, confermando i suoi racconti lineari su cui dispone motivi circolari, l’infinito ripetersi del tempo. Luogo di una vita a due e poi a tre, un bambino nasce da quell’unione, l’isola ospita l’avventura umana eludendo il pamphlet ecologista e sottolineando l’incapacità dell’uomo a vivere da solo. Che si tratti di un’allucinazione del protagonista o della volontà della tartaruga, la metamorfosi dell’animale rinvia al bisogno della vita in comunità, all’esigenza di istituire un sistema sociale, anche elementare come quello della famiglia. L’autore tacita la parola, concentrandosi sul linguaggio dell’azione e del corpo, preponendo i nostri complessi istinti primari. Gli stessi che spingono una tartaruga che nasce sulla spiaggia a dirigersi verso il mare.
Più dalle parti di Rousseau che di DefoeLa tartaruga rossa è poesia meditativa accomodata tra la foresta magica della Principessa Mononoke e l’oceano di Ponyo. Da qualche parte, lungo i tropici del capolavoro.

Programmazione Cinema Italia dal 14-03 al 19-03

Moonlight di  B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
    miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico.
Sei vie per Santiago di  L.B. Smith (film sottotitolato in italiano)
serata evento, ospiti in sala persone che hanno percorso il cammino
Wayne ha 65 anni, ha perso da poco la moglie. Cammina con Jack, 73 anni, il prete episcopale che ha celebrato il funerale. Misa è danese, sportiva, competitiva. Pensava che avrebbe voluto camminare da sola, ma poi ha incontrato il canadese William, che ha il suo stesso passo veloce, e non si sono più seprati. Annie viene da Los Angeles, il ginocchio le fa male, la fatica la fa piangere, ma smettere sarebbe ancora più doloroso. E poi ci sono Sam, dal Brasile, in piena crisi esistenziale, Tomas, che non sapeva se fare kite-surfing o intraprendere il cammino, Tatiana, di 26 anni, fervente religiosa, con il fratello ateo e il figlio Alexis, che di anni ne ha 3, ed è il più giovane della compagnia.
Il cammino di Santiago di Compostela è lungo quasi 800 kilometri e attraversa il Nord della Spagna per terminare nell’Oceano a Finisterre. Non è un’impresa semplice, eppure sono secoli che le genti di ogni dove lo percorrono. Molti partono con una domanda nel cuore, perché in quello spazio e in quel tempo, immersi nella natura e segnati dalla fatica ma anche dall’emozione, il confronto con se stessi è inevitabile e spesso illuminante. La regista lo ha fatto nel 2008, dopodiché, al ritorno a casa, la stessa “chiamata” che l’aveva messa sulla strada spagnola la prima volta, l’ha indotta a tornare per documentare il pellegrinaggio di altre persone. Il suo approccio è profondamente umanistico: il paesaggio ha ovviamente il suo spazio, ma non è alla sua contemplazione che si dedica il documentario. Allo stesso modo, la geografia del percorso, la pittoresca burocrazia dei timbri, il cibo e le messe, finiscono inevitabilmente nelle riprese di Lydia B. Smith ma non viene concesso loro uno spazio autonomo. Al centro, dall’inizio alla fine, ci sono le persone (le sei che ha scelto al montaggio, dopo averne seguite più del doppio per un totale di 300 ore di girato).
Piove, fa freddo, oppure il sole brucia in testa e sulle spalle, le vesciche sono causa di dolori atroci, la febbre può allettare per un po’, ma ogni giorno è diverso, ogni tratto è diverso, e questo cambiamento, di sfondo e di umore è in fondo una metafora della vita, e si va avanti nonostante tutto, sperimentando difficoltà e gioie a fasi alterne, in vista della ricompensa finale, in autostima e significato.
Dal film della Smith emerge bene un piccolo paradosso: quello che s’intraprende, anche se non sempre in solitaria, come un viaggio individuale, alla ricerca di sé, della risposta che probabilmente abbiamo già dentro ma dietro una nebbia troppo fitta per riconoscerla, si trasforma quasi sempre in un’esperienza di condivisione e di collettività. Il Cammino, sembra dire il film, in un modo o nell’altro, ti sorprende. Ed è in questo sovvertire le aspettative che il Cammino incontra la vita e anche il cinema
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Il primo meraviglioso spettacolo di  D. Sibaldi
sarà presente in sala il regista
Quando si è bambini, non esistono differenze, pregiudizi, razze. E non esistono stranieri. Tutti si riconoscono uguali attraverso il gioco e lo spirito d’avventura. Succede proprio questo nel documentario «Il primo meraviglioso spettacolo» del regista e scrittore Davide Sibaldi, promosso da Amnesty International e Unicef e in programma il 19 febbraio al teatro dell’Affratellamento in via Gianpaolo Orsini 73 (ore 17,30 e ore 21, ingresso 7 euro, parte dell’incasso sarà devoluto alle attività di Amnesty a sostegno dei diritti umani). Basato sul libro sui rifugiati dal titolo «Giuseppe lo sputafuoco», scritto e illustrato proprio da Sibaldi, il film racconta la storia di un grande spettacolo teatrale in cui recitano 45 bambini provenienti da 11 Paesi del mondo e altri bambini italiani con disabilità psichica.
Infanzia e integrazione
Un film per bambini, ma soprattutto per gli adulti, sull’importanza del bambino interiore che regna in ciascun essere umano e che dovremmo imparare ad ascoltare. Tre le parti: prima la storia del libro sui rifugiati raccontata a cartoni animati; poi la fase di realizzazione dello spettacolo teatrale dei bambini; infine le interviste ai 35 bambini dello spettacolo e ai genitori su infanzia e integrazione. Ed è quest’ultima parte ad evidenziare i differenti approcci ai temi della diversità tra i bambini e gli adulti. «Questo spettacolo teatrale — ha spiegato il regista Sibaldi — è stato creato per unire ulteriormente i bambini delle differenti culture e capacità psichiche. E da questo spettacolo è nato il documentario, che intende affrontare l’immigrazione con un approccio diverso, concentrandosi sugli aspetti positivi e gioiosi, superando le etichette di dolore e distruzione con cui solitamente viene raffigurato questo tema».
La marcia dei pinguini: il richiamo di  L. Jacquet
Un pinguino imperatore, dopo aver covato l’uovo che conteneva suo figlio e aver poi tenuto al caldo il figlio stesso dalla nascita fino al raggiungimento di una dimensione ragguardevole, deve insegnargli a diventare adulto e avviarlo verso il viaggio in direzione del Mare Antartico dove il pulcino dovrà imparare a nuotare e a procurarsi il cibo come ogni altro membro del branco. Questo processo di iniziazione non è privo di incognite o di pericoli, dalle tempeste di neve ai crepacci ai predatori, ma papà pinguino non si ferma davanti a nulla e consegna junior al destino per cui è stato messo al mondo.
12 anni dopo il successo mondiale di La marcia dei pinguini, lo scienziato e documentarista francese Luc Jacquet torna a raccontare i più simpatici abitanti dell’Antartide attraverso un lavoro che ha richiesto mesi di osservazioni e di riprese, sopra e sotto la banchisa ghiacciata.
Il risultato è il resoconto accorato e partecipe della vita di una comunità che commuove per spirito unitario e determinazione ad affrontare insieme ogni impresa, dalle lunghe marce di migliaia di componenti alla formazione a testuggine per fare fronte ai venti gelidi del Polo.
Fin dalla prima scena La marcia dei pinguini – Il richiamo conferma l’enorme capacità pittorica di Jacquet, che non si accontenta di documentare l’esistente ma cerca di dargli un senso estetico profondo, aumentando con ralenti, primissimi piani e riprese mozzafiato il valore cinematografico della storia che racconta. Le immagini sono ben lontane dalla distanza oggettiva di certe (pur bellissime) sequenze del National Geographic perché restano impregnate della forte empatia del regista nei confronti delle creature che ritrae.
Rosso Istanbul di  F. Ozpetek
Ferzan Ozpetek traspone su grande schermo il suo romanzo autobiografico, “Rosso Istanbul”. Come nel libro, anche nel film il protagonista è un affermato regista turco che un giorno decide di tornare nella capitale turca, dov’è nato e dove ha trascorso infanzia e adolescenza. Un ritorno a casa improvviso, il suo, che gli riserverà non poche sorprese.
Dopo 8 lavori realizzati tutti in Italia, con questo film il regista torna agli esordi della sua carriera, gli anni scanditi da Il bagno turco e Harem Suare. Il cineasta mette l’accento sul tema del ritorno che – dice – “quasi sempre è legato al cambiamento”. E aggiunge: “Tutti abbiamo assistito in questi anni al cambiamento del rapporto tra Occidente e Oriente, non solo politico e sociologico ma anche emotivo che è poi l’aspetto che più mi coinvolge. Perché è cambiato, dopo tanto tempo trascorso in Italia, anche il mio rapporto con Istanbul. Con questo film, attraverso i personaggi ognuno dei quali è una parte di me, tento di ricucire quella relazione”.
Il cast è composto di attori turchi tra i quali il pubblico italiano riconoscerà Serra Yilmaz, una delle ‘muse’ del regista.
È una co-produzione italo-turca prodotta da R&C Produzioni e BKM con Rai Cinema. Produttori Tilde Corsi e Gianni Romoli.

Programmazione Cinema Italia dal 07-03 al 12-03

Jackie di  P. Larrain
Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.
Un re allo sbando di  P. Brosens
Festival del Cinema di Venezia 2016 – sezione orizzonti
Che Peter Brosens e Jessica Woodworth fossero capaci di un cinema decisamente eccentrico rispetto ai grandi baricentri della produzione contemporanea, che si parli i prodotti più commerciali o di quelli d’autore destinati ai mercati festivalieri, lo avevamo capito già quando, a Venezia, vedemmo La quinta stagione: a metà tra il fiabesco surrealismo letterario di Shane Jones e la pittura di Pieter Bruegel.
Qui non ci sono né il primo né la seconda, ma c’è ancora quello spirito anarchico e irriverente con il quale i due autori raccontano storie strampalate in grado, però, di parlare del mondo e dell’essere umano.
Un Re allo sbando (brutto titolo italiano scelto per King of the Belgians, scelto probabilmente per attirare il pubblico della commedia più tradizionale), riesce infatti a raccontare una storia dove – a partire da uno spunto nemmeno troppo fanta-politico, quello di una Vallonia che si dichiara indipendente dal Belgio fiammingo – un sovrano deve letteralmente scappare da una capitale straniera che non vorrebbe lasciarlo andare (motivi d’immagine e diplomatici) e affrontare una comica e assurda fuga attraverso i Balcani; una storia che, appunto, parla del nostro mondo, di un’Europa che ha perso il senso di sé stessa ed è lacerata dalle spinte nazionaliste, e di un uomo, un Re stanco e spento, disattivato dalle formalità del protocollo, che ritrova sé stesso e la sua libertà personale.
Nati documentaristi, Brosens e Woodworth scelgono per questo film di finzione la strada del mockumentary (tutto è raccontato attraverso l’occhio della videocamera del regista inglese che la Regina aveva assunto per un documentario istituzionale sul Re, Nicolas III) e della commedia strampalata, spolverando il tutto con un grottesco vagamente demenziale, trovando così una curiosa ma giusta distanza per divertire (prima di tutto, ma senza negarsi un pizzico di amarezza a fin di bene) e raccontare scena e retroscena dei suoi personaggi: oltre al Re – un bravissimo Peter Van den Begin, maschera tutt’altro che monocorde – ci sono il suo ligio addetto al protocollo, una giovane e agguerrita addetta stampa, un valletto personale e ovviamente il regista del documentario.
Tutti, alle prese con l’imprevedibile e con una fuga che li riporterà a contatto diretto con il vero cuore dell’Europa e del suo popolo (e anche del loro, di cuore), perderanno progressivamente maschere e abiti, avvicinandosi in maniera quasi pericolosa a un disvelamento completo di sé, per poi (sapere di dover) reindossare tutto ma con nuova consapevolezza.
Più di tutti, ovviamente il Re. L’unico, non a caso, a metterli letteralmente nudo per fare il bagno nel mezzo del Mediterraneo che stanno tentando di attraversare in maniera improvvisata e rocambolesca.
Perché è il protagonista del film, certo. Perché è lui il personaggio cui era destinato il più evidente e necessario arco di trasformazione. Perché era lui a dover riprendere in mano il controllo della sua vita: delle sue parole, come raccontato dal ricorrente e costante tentativo di scrivere un discorso che riunisca nuovamente il suo Stato e il suo popolo.
Ma anche perché, semplicemente, è il Re. L’uomo simbolo di un’istituzione considerata sorpassata e antimoderna, l’uomo che, proverbialmente, è solo al comando (ma privo oramai di potere e ruolo) e la cui solitudine esistenziale è stata esplorata così spesso da cinema e letteratura.
Si è perso il Re, viva il Re.
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Moonlight di  B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
    miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico..

I VENERDI’ A TEATRO

I venerdì a teatro” è la rassegna del teatro dialettale e non con cui il Cinema Italia vuole valorizzare la forza della cultura che viene dal territorio e dal volontariato che in esso opera.
La rassegna è composta di 4 serate e si configura come evento di richiamo per gli amanti del teatro e della commedia; ogni venerdì a partire dal 17 marzo si aprono le porte al divertimento, all’energia, alla passione e all’impegno delle compagnie teatrali del territorio che si danno appuntamento al Cinema Italia.
La rassegna coinvolge compagnie teatrali del territorio che portano in scena loro commedie su testi esistenti ovvero da loro creati o ri-adattati. L’allestimento delle scene e le interpretazioni sono frutto del volontariato spontaneo.
Questa impostazione (la volontà di far conoscere la cultura che nasce spontaneamente dal territorio) ci da la possibilità di far vivere questa realtà ad un pubblico più ampio che probabilmente non frequenta il teatro.
E’ il momento ideale per scegliere il teatro, che è per definizione “stabile”, ma è anche un’ode all’instabilità preziosa, quella di chi non si stanca mai di andare e di viverlo.

Programmazione Cinema Italia dal 28-02 al 05-03

A United Kingdom di  A. Asante
1947. L’erede al trono del Botswana Seretse Khama sta terminando gli studi di giurisprudenza a Londra quando si imbatte nell’impiegata inglese Ruth Williams. È amore a prima vista, e poiché Seretse deve tornare in Africa per assumere il ruolo di re, i due decidono di sposarsi. Ma il resto del mondo non sembra pronto per quel matrimonio fra un capo tribù africano e una suddita dell’impero coloniale inglese.
Amma Asante, ex attrice, sceneggiatrice e regista inglese di origini ghanesi con un interesse per le relazioni fra coppie miste (la sua regia precedente, La ragazza del dipinto, narrava fra le altre cose l’amore fra una donna nera e un uomo bianco), segue la vicenda di due personaggi realmente esistiti che con la loro determinazione a superare i pregiudizi hanno esercitato un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale, tanto da diventare un esempio di armonia razziale elogiato da Nelson Mandela.
Il film funziona soprattutto quando le vicende private di Seretse e Ruth fanno da cartina di tornasole al clima politico della loro epoca e da argine al contagio dell’apartheid che proprio allora si stava radicando in Sudafrica.
Il cliente di  A. Farhadi
oscar 2017 miglior film straniero
Emad e Rana sono due coniugi costretti ad abbandonare il proprio appartamento a causa di un cedimento strutturale dell’edificio. Si trovano così a dover cercare una nuova abitazione e vengono aiutati nella ricerca da un collega della compagnia teatrale in cui i due recitano da protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova casa era abitata da una donna di non buona reputazione e un giorno Rana, essendo sola, apre la porta (convinta che si tratti del marito) a uno dei clienti della donna il quale la aggredisce. Da quel momento per Emad inizia una ricerca dell’uomo in cui non vuole coinvolgere la polizia.
Asghar Farhadi torna a Teheran per proporre una vicenda in cui azione teatrale e quotidianità finiscono con il ritrovarsi in una specularità significante. Il regista fa sì che sin dall’inizio questa dimensione venga sottolineata facendo diretto riferimento alla messa in scena. Ci ricorda cioè la nostra posizione di spettatori invitandoci a leggere la duplice finzione (teatrale e cinematografica) e ad individuarne gli scambi.
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Jackie di  P. Larrain
Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.

Programmazione Cinema Italia dal 21-02 al 26-02

150 milligrammi di  E. Bercot
Una pneumologa dell’ospedale universitario di Brest scopre un legame fra l’assunzione del farmaco Mediator e il decesso di alcuni suoi pazienti. Dopo aver sottoposto la possibilità di una correlazione di causa-effetto al gruppo di ricerca farmacologico della struttura, decide insieme a loro di chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco di ritirarlo dal mercato, dove è venduto da una trentina d’anni. Ha inizio una guerra sproporzionata fra il piccolo team bretone, il Ministero della Salute e soprattutto il colosso farmaceutico che lo commercializza. Film ispirato ai fatti vissuti dalla dottoressa Irene Frachon tra il 2009 e 2010.
Emmanuelle Bercot voleva fare il medico. Lo ha rivelato in un’intervista confessando la sua passione, derivata dal padre chirurgo, di ospedali, sale operatorie e malattie. È finita per fare altro, ma pur da regista non si è fatta mancare la soddisfazione di osservare le gesta di una dottoressa assai determinata e combattiva. Affascinata più dal carattere bizzarro che non dalla professionalità della Frachon, ha messo in piedi un progetto ambizioso a cui ha lavorato per diversi anni e che tocca più il genere investigativo / giudiziario dentro al cinema di denuncia che non il medical drama.
Con un’ispirazione notevole, la Bercot non ha perso il senso del necessario equilibrio per affrontare non solo una delicatissima vicenda reale con protagonisti viventi, ma anche una tensione emotiva che altrove l’aveva fatta “sbandare”.
La bella addormentata (Bolshoi ballet)
Il balletto russo per il sonno di Aurora
Al compimento del suo sedicesimo compleanno, la maledizione della strega cattiva Carabosse fa cadere la bella principessa Aurora in un sonno lungo 100 anni. Solo il bacio di un principe potrà risvegliarla… Nella cornice della più magica delle favole, i ballerini del Bolshoi ci conducono in un viaggio da sogno con fate, regni incantati, giovani principesse e affascinanti principi, nel più classico stile del balletto. La sontuosa messa in scena del Bolshoi, con i suoi vestiti pregiati e le ricche scenografie, dà vita alla classica favola di Perrault come nessun altro Davvero da vedere!
Ballerina di  E. Summer
Il nuovo film d’animazione diretto da  Eric Summer e  Éric Warin sarà ambientato nella Francia del 1884. Félice è una giovane adolescente piena di sogni e ambizioni il cui più grande desiderio è quello di poter danzare al Teatro Dell’Opera di Parigi. Tuttavia non ha una famiglia che la sostenga alle spalle ed è costretta a vivere in un orfanotrofio.
Un giorno lei, insieme al suo amico Corentin, decide di pianificare una fuga per poter andare a Parigi, nella speranza di poter finalmente realizzare i propri sogni.
 
Il cliente di  A. Farhadi
candidato agli oscar 2017 miglior film straniero
Emad e Rana sono due coniugi costretti ad abbandonare il proprio appartamento a causa di un cedimento strutturale dell’edificio. Si trovano così a dover cercare una nuova abitazione e vengono aiutati nella ricerca da un collega della compagnia teatrale in cui i due recitano da protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova casa era abitata da una donna di non buona reputazione e un giorno Rana, essendo sola, apre la porta (convinta che si tratti del marito) a uno dei clienti della donna il quale la aggredisce. Da quel momento per Emad inizia una ricerca dell’uomo in cui non vuole coinvolgere la polizia.
Asghar Farhadi torna a Teheran per proporre una vicenda in cui azione teatrale e quotidianità finiscono con il ritrovarsi in una specularità significante. Il regista fa sì che sin dall’inizio questa dimensione venga sottolineata facendo diretto riferimento alla messa in scena. Ci ricorda cioè la nostra posizione di spettatori invitandoci a leggere la duplice finzione (teatrale e cinematografica) e ad individuarne gli scambi..
 
A United Kingdom di  A. Asante
1947. L’erede al trono del Botswana Seretse Khama sta terminando gli studi di giurisprudenza a Londra quando si imbatte nell’impiegata inglese Ruth Williams. È amore a prima vista, e poiché Seretse deve tornare in Africa per assumere il ruolo di re, i due decidono di sposarsi. Ma il resto del mondo non sembra pronto per quel matrimonio fra un capo tribù africano e una suddita dell’impero coloniale inglese.
Amma Asante, ex attrice, sceneggiatrice e regista inglese di origini ghanesi con un interesse per le relazioni fra coppie miste (la sua regia precedente, La ragazza del dipinto, narrava fra le altre cose l’amore fra una donna nera e un uomo bianco), segue la vicenda di due personaggi realmente esistiti che con la loro determinazione a superare i pregiudizi hanno esercitato un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale, tanto da diventare un esempio di armonia razziale elogiato da Nelson Mandela.
Il film funziona soprattutto quando le vicende private di Seretse e Ruth fanno da cartina di tornasole al clima politico della loro epoca e da argine al contagio dell’apartheid che proprio allora si stava radicando in Sudafrica.

Programmazione Cinema Italia dal 14-02 al 19-02

Il disprezzo di  JL. Godard
versione originale sottotitolata in italiano
Lo scrittore e sceneggiatore Paul Javal (Michel Piccoli) viene chiamato da un potente produttore americano, Prokhosh, (Jack Palance), a riscrivere il copione di un film tratto dall’Odissea che al momento manca di appeal commerciale. La moglie di Paul, Camille (Brigitte Bardot), inizia a disprezzare il marito poiché, quest’ultimo, tollera e favorisce le avances che Prokosh inizia a farle fin dal loro primo incontro.
L’omonimo romanzo di Alberto Moravia è solo un pretesto, narrativo e produttivo, per realizzare una pellicola che amplia decisamente il raggio d’azione rispetto alle pagine del testo di partenza. Jean-Luc Godard compie una spietata e cinica analisi delle dinamiche di coppia, segnate da quell’incomunicabilità che tornerà a trattare nel successivo Il bandito delle undici (1965). Il regista costruisce un film, in parte, autobiografico e incentrato sull’opposizione tra vera arte (Omero) e prodotto commerciale (la pellicola hollywoodiana): il complesso rapporto con produttori attenti soltanto a dinamiche commerciali è un argomento che tocca Godard da vicino, e che avrà ancora un ruolo da protagonista nelle sue pellicole degli anni Ottanta, spesso incentrate, come Il disprezzo, su un film da farsi. Attraverso una confezione impeccabile, fatta di sinuosi movimenti di macchina e di ambientazioni suggestive (Villa Malaparte, a Capri), l’autore dà vita a una complessa riflessione sulla maestosità dell’arte classica (l’insistenza sulle statue) che oggi potrebbe essere proseguita dal cinema, rappresentato dall’amato Fritz Lang che veste i panni del regista dell’ipotetica Odissea. In fondo, Il disprezzo è soprattutto un grande omaggio alla bellezza della settima arte, simboleggiata anche dal fascino di una Brigitte Bardot ai massimi storici. Le sceneggiature si cambiano, i personaggi si modificano, persino la “diva” può morire, ma il cinema prosegue il suo cammino e non può fermarsi, come dimostra il magnifico finale. Camei di Raoul Coutard (direttore della fotografia) e Jean-Luc Godard, che appare davanti alla macchina da presa come aiuto regista. Ormai leggendari i tagli voluti da Carlo Ponti per l’edizione italiana, che hanno maciullato una delle pellicole più raffinate ed eleganti della prima metà degli anni Sessanta: il film venne rimontato, stampato con colori diversi da quelli voluti da Godard, modificato nella colonna sonora e accorciato di ben venti minuti. Come se non bastasse, nell’edizione originale ogni personaggio parla nella sua lingua, mentre nella versione (assassina!) nostrana ognuno comunica, ovviamente, in italiano.

Io, Claude Monet di  P. Grasbky

La grande arte al cinema!
Tremila lettere di Claude Monet. È a partire da questo immenso patrimonio che si snoda Io, Claude Monet, il nuovo docu-film di Phil Grabsky che arriva al cinema solo il 14 e 15 febbraio.
Proprio a partire dagli scritti di Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926), accostati alle straordinarie opere conservate nei più importanti musei del mondo, il film rivela la tumultuosa vita interiore del pittore di Giverny, tra momenti di intensa depressione e giorni di assoluta euforia creativa, offrendone così un ritratto complesso e commuovente. Attraverso più di cento dipinti filmati in alta definizione lo spettatore potrà conoscere la vita emotiva e creativa del pittore che con il suo Impression. Soleil levant, esposto nell’aprile del 1874 nello studio del fotografo Nadar, fece parlare il critico Louis Leroy della prima “esposizione degli impressionisti”, dando involontariamente vita al termine che avrebbe segnato buona parte della storia dell’arte europea di fine Ottocento.
Riportate alla vita dall’acclamato attore britannico Henry Goodman, le lettere di Monet narrano infatti il percorso dell’artista da enfant prodige e appassionato caricaturista a maestro indiscusso di fama internazionale e registrano con attenzione gli incontri più importanti – come quelli col pittore Eugène Boudin e col primo ministro e amico Georges Clemenceau, che nel 1899 gli scrive “Voi ritagliate dei pezzetti di cielo e li gettate in faccia alla gente. Niente sarebbe così stupido come dirvi grazie: non si ringrazia un raggio di sole”.
 
Nebbia in agosto di  K. Wessel
Germania del Sud, inizio anni Quaranta. Ernst è un ragazzino orfano di madre, molto intelligente ma disadattato. Le case e i riformatori nei quali ha vissuto l’hanno giudicato “ineducabile”, ed è stato confinato in un’unità psichiatrica a causa della sua natura ribelle. Qui però si accorge che alcuni internati vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Veithausen. Ernst decide quindi di opporre resistenza, aiutando gli altri pazienti, e pianificando una fuga insieme a Nandl, il suo primo amore. Ma Ernst è in realtà in grave pericolo, perché è la dirigenza stessa della clinica a decidere se i bambini debbano vivere o morire…
Giffoni film festival 2016
Miglior Film – 2o Classificato
Premio CGS (Cinecircoli Giovanili Socioculturali) “Percorsi Creativi 2016”
motivazione: “perché il film, ambientato come altri nella Germania nazista, approfondisce un aspetto poco conosciuto, tuttora controverso: quello dei programmi di eutanasia applicati anche su minori e disabili. Ispirato ad una storia vera, il prodotto riesce a sottolineare l’importanza universale del rispetto della vita altrui e ad evidenziare la pericolosità delle ideologie disumanizzanti che intendono manipolarla su basi selettive. La sceneggiatura non si rifugia nel facile schematismo che separa buoni e cattivi, ma mette in luce la fragilità umana, da sempre vittima della “Banalità del Male”. I significati più profondi vengono veicolati soprattutto da una regia che valorizza l’interpretazione e l’espressività dei giovani attori, anche attraverso un uso calibrato di musiche evocative e dialoghi essenziali. Infine, grazie al netto contrasto tra i toni cromatici caldi e freddi degli spazi esterni ed interni, emerge un clima di tragedia che, nonostante tutto, apre uno spiraglio alla speranza.”
150 milligrammi di  E. Bercot
Una pneumologa dell’ospedale universitario di Brest scopre un legame fra l’assunzione del farmaco Mediator e il decesso di alcuni suoi pazienti. Dopo aver sottoposto la possibilità di una correlazione di causa-effetto al gruppo di ricerca farmacologico della struttura, decide insieme a loro di chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco di ritirarlo dal mercato, dove è venduto da una trentina d’anni. Ha inizio una guerra sproporzionata fra il piccolo team bretone, il Ministero della Salute e soprattutto il colosso farmaceutico che lo commercializza. Film ispirato ai fatti vissuti dalla dottoressa Irene Frachon tra il 2009 e 2010.
Emmanuelle Bercot voleva fare il medico. Lo ha rivelato in un’intervista confessando la sua passione, derivata dal padre chirurgo, di ospedali, sale operatorie e malattie. È finita per fare altro, ma pur da regista non si è fatta mancare la soddisfazione di osservare le gesta di una dottoressa assai determinata e combattiva. Affascinata più dal carattere bizzarro che non dalla professionalità della Frachon, ha messo in piedi un progetto ambizioso a cui ha lavorato per diversi anni e che tocca più il genere investigativo / giudiziario dentro al cinema di denuncia che non il medical drama.
Con un’ispirazione notevole, la Bercot non ha perso il senso del necessario equilibrio per affrontare non solo una delicatissima vicenda reale con protagonisti viventi, ma anche una tensione emotiva che altrove l’aveva fatta “sbandare”.
Ballerina di  E. Summer
Il nuovo film d’animazione diretto da  Eric Summer e  Éric Warin sarà ambientato nella Francia del 1884. Félice è una giovane adolescente piena di sogni e ambizioni il cui più grande desiderio è quello di poter danzare al Teatro Dell’Opera di Parigi. Tuttavia non ha una famiglia che la sostenga alle spalle ed è costretta a vivere in un orfanotrofio.
Un giorno lei, insieme al suo amico Corentin, decide di pianificare una fuga per poter andare a Parigi, nella speranza di poter finalmente realizzare i propri sogni.

Programmazione Cinema Italia dal 07-02 al 12-02

Nebbia in agosto di  K. Wessel
Germania del Sud, inizio anni Quaranta. Ernst è un ragazzino orfano di madre, molto intelligente ma disadattato. Le case e i riformatori nei quali ha vissuto l’hanno giudicato “ineducabile”, ed è stato confinato in un’unità psichiatrica a causa della sua natura ribelle. Qui però si accorge che alcuni internati vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Veithausen. Ernst decide quindi di opporre resistenza, aiutando gli altri pazienti, e pianificando una fuga insieme a Nandl, il suo primo amore. Ma Ernst è in realtà in grave pericolo, perché è la dirigenza stessa della clinica a decidere se i bambini debbano vivere o morire…
Giffoni film festival 2016
Miglior Film – 2o Classificato      
Premio CGS (Cinecircoli Giovanili Socioculturali) “Percorsi Creativi 2016”
motivazione: “perché il film, ambientato come altri nella Germania nazista, approfondisce un aspetto poco conosciuto, tuttora controverso: quello dei programmi di eutanasia applicati anche su minori e disabili. Ispirato ad una storia vera, il prodotto riesce a sottolineare l’importanza universale del rispetto della vita altrui e ad evidenziare la pericolosità delle ideologie disumanizzanti che intendono manipolarla su basi selettive. La sceneggiatura non si rifugia nel facile schematismo che separa buoni e cattivi, ma mette in luce la fragilità umana, da sempre vittima della “Banalità del Male”. I significati più profondi vengono veicolati soprattutto da una regia che valorizza l’interpretazione e l’espressività dei giovani attori, anche attraverso un uso calibrato di musiche evocative e dialoghi essenziali. Infine, grazie al netto contrasto tra i toni cromatici caldi e freddi degli spazi esterni ed interni, emerge un clima di tragedia che, nonostante tutto, apre uno spiraglio alla speranza.”
La mia vita da zucchina di  C. Barras
Candidato Oscar 2017 miglior film d’animazione
Candidato Golden Globe 2017 miglior film d’animazione
Zucchino non è un ortaggio ma un bambino (il cui vero nome era Icaro) che pensa di essersi ritrovato solo al mondo quando muore sua madre. Non sa che incontrerà dei nuovi amici nell’istituto per bambini abbandonati in cui viene accolto da Simon, Ahmed, Jujube, Alice e Béatrice. Hanno tutti delle storie di sofferenza alle spalle e possono essere sia scostanti che teneri. C’è poi Camille che in lui suscita un’attenzione diversa. Se si hanno dieci anni, degli amici e si scopre l’amore forse la vita può presentarsi in modo diverso rispetto alle attese.
Ci sono dei film (rarissimi) capaci di infrangere una serie di tabù (anche della categoria del politically correct) consapevoli di avere dalla propria parte uno sguardo carico di quell’umanità profonda che rivela un’altrettanto profonda e partecipe conoscenza dei soggetti portati sullo schermo. Il film ha trovato il proprio punto di partenza nel libro “Autobiographie de une Courgette” ma è Céline Sciamma, al suo top nella scrittura, che ha saputo fornirgli il giusto equilibrio tra dramma, commozione e speranza.
Perché ci viene ricordato quanto sia intensa la sofferenza di un bambino che vive una condizione familiare disastrata (la mamma di Zucchino era alcolizzata e lui conserva di lei come ricordo una lattina di birra vuota ma i suoi compagni non hanno vissuto meglio). Ci dice però anche che si può sfuggire allo stereotipo cinicamente pessimista secondo il quale ‘tutti’ gli istituti per minori sono luoghi di detenzione in cui trascorrere mesi o anni in cui i soprusi sono pane quotidiano. Non è così per Zucchino e i suoi amici anche se la speranza di trovare una possibilità di vita al di fuori resta non può venire a mancare.
Ci viene anche detto (e questa consapevolezza viene comunicata ai giovanissimi spettatori) che le prime domande sulla sessualità non sono forse mai state (e oggi lo sono ancor meno) riservate a quel periodo della vita che si chiama pubertà. Nascono infatti molto prima e bisogna aiutare i piccoli a coniugarle con il sentimento, come accade con Zucchino e Camille dopo che ci si era interrogati, dando risposte catastrofiche, su cosa accade tra due persone di sesso differente quando vanno oltre l’amicizia.
Claude Barras ha saputo mettersi ad altezza di bambino deprivato senza mai farsi tentare da uno sguardo dall’alto in basso. Lo ha fatto consegnando ad ognuno dei protagonisti (pupazzi animati in stop motion) dei grandi occhi capaci di attrarre qualsiasi spettatore (bambino o adulto che sia) che non sia privo di sensibilità.
Il GGG (grande gigante gentile) di  S. Spielberg
Il GGG è un gigante, un Grande Gigante Gentile, molto diverso dagli altri abitanti del Paese dei Giganti che come San-Guinario e Inghiotticicciaviva si nutrono di esseri umani, preferibilmente bambini. E così una notte il GGG – che è vegetariano e si ciba soltanto di Cetrionzoli e Sciroppio – rapisce Sophie, una bambina che vive a Londra e la porta nella sua caverna. Inizialmente spaventata dal misterioso gigante, Sophie ben presto si rende conto che il GGG è in realtà dolce, amichevole e può insegnarle cose meravigliose. Il GGG porta infatti Sophie nel Paese dei Sogni, dove cattura i sogni che manda di notte ai bambini e le spiega tutto sulla magia e il mistero dei sogni.
Steven Spielberg doveva prima o poi incontrare Roald Dahl e farlo con questo libro. Innanzitutto per una coincidenza (non astrale ma comunque significativa) che ha fatto sì che “Il GGG” ed E.T. – L’extra-terrestre trovassero l’uno la via delle librerie e l’altro quella degli schermi nello stesso anno (il 1982). Poi anche (e soprattutto) perché nel testo del grande autore britannico si trovano numerosi elementi che non potevano non accendere l’interesse del regista. Roald Dahl, la cui biografia è così affollata di eventi negativi che neanche il più sadico degli sceneggiatori avrebbe potuto attribuirli a un solo personaggio, sapeva come parlare direttamente ai più giovani (e non solo a loro) del dolore e della sofferenza senza falsi pudori ma era anche consapevole di dover mostrare loro la via della speranza. Il cinema di Spielberg si è sempre fatto innervare, fin dai giorni di Duel da questi due elementi declinandoli con modalità differenti nel corso degli anni. Facendo anche proprio e con forza il tema della diversità che per Dahl è fondamentale. Sophie è diversa in quanto orfana, è diversa in quanto divergente rispetto alle disposizioni delle istituzioni (come Matilda) ed è una sognatrice ad occhi più aperti che chiusi. Ma anche il GGG è un diverso nel suo mondo in cui è di fatto un nano (quanti sviluppi ha nel film questa difformità di sguardi e di valutazioni tra Umani e Giganti!). Tra loro vince una solidarietà inizialmente non prevedibile che li porta a formare una squadra pronta ad affrontare dei rischi tenendo però davanti a sé come un faro il sentimento della Gentilezza (che, dopo Cenerentola, sembra essere diventato un po’ il leit motiv della Disney).
Sing di  G. Jennings
Il koala Buster Moon si è innamorato del teatro all’età di sei anni e al teatro ha dedicato la sua vita. Ha anche accumulato una discreta serie di fiaschi e di debiti e ora è ricercato dalla banca a cui ha chiesto un prestito e dai macchinisti che reclamano lo stipendio. Come salvare capra e cavoli? Buster ha un’idea geniale: un talent show. Apre quindi le porte del suo teatro ad una lunga fila di aspiranti cantanti e performer e sceglie i suoi gioielli: Rosita, maialina madre di 25 figli piccoli, Mike, topino vanitoso e vocalist d’eccezione, Ash, porcospina dal cuore rock e Johnny, scimmione dall’animo blues. Ci sarebbe anche Meena, elefantina portentosa, apparentemente troppo timida per esibirsi in pubblico…
I genitori di tutto il mondo s’incollano davanti al televisore di casa a guardare i talent show di maggior successo? Nessun problema. Ora anche i bambini hanno il loro, molto più romantico, elegante, scatenato e -cosa di gran lunga più importante- interamente popolato di animali. Alla Illumination Entertainment (quella dei Minions, per capirci) sanno come fare di un film una festa, preparando il crescendo di ritmo e di emozione e riportando giustamente il discorso ab ovo, al concetto di spettacolo, con il suo tempio al centro e il suo gioco del travestimento.
Mescolando fantasia e citazionismo, Sing modella Buster Moon sul Bob Hoskins di piccoli film di generi diversi al suo interno, esattamente come i numeri di un contenitore musicale. C’è la favola di Rosita, sbalzata dagli scaffali del supermarket alla soirée in abito di paillettes, c’è il noir di Mike, tutto bulli e pupe, il prison movie di Jhonny, il mélo suburbano di Mina e quello indie di Ash.
La la land di  D. Chazelle
Los Angeles. Mia sogna di poter recitare ma intanto, mentre passa da un provino all’altro, serve caffè e cappuccini alle star. Sebastian è un musicista jazz che si guadagna da vivere suonando nei piano bar in cui nessuno si interessa a ciò che propone. I due si scontrano e si incontrano fino a quando nasce un rapporto che è cementato anche dalla comune volontà di realizzare i propri sogni e quindi dal sostegno reciproco. Il successo arriverà ma, insieme ad esso, gli ostacoli che porrà sul percorso della loro relazione.
Damien Chazelle ci aveva lasciato con uno scontro a due su un palcoscenico con in mezzo una batteria su cui grondavano copiose le gocce di sudore. Lo ritroviamo ora in un mondo (quello del musical) dove nessuno suda davvero e in cui tutto avviene con magica fluidità. Woody Allen in Tutti dicono I Love You fa dire a uno dei personaggi che se si vuole raccontare una storia con la massima libertà creativa il genere da utilizzare è appunto quello del musical. Infatti, così come Woody e Goldie Hawn volavano sulla Senna in quel film, lo stesso fanno Ryan Gosling ed Emma Stone (che Allen lo conosce bene). Con questo però non si deve pensare che Chazelle si limiti a realizzare un film nostalgico o citazionista perché in realtà sa come andare ben oltre i parametri del classico e lo dichiara sin dallo straordinario piano sequenza iniziale.
Un regista che aveva vinto un Oscar per un montaggio a tratti frenetico spiazza tutti compiendo una scelta stilistica in netto contrasto in apertura. Perché Chazelle è assolutamente padrone della macchina cinema e non esita a riproporre il proprio amore per il jazz sotto una forma espressiva per lui nuova ma di cui mostra di conoscere ogni regola e strategia comunicativa. Ci racconta ancora una volta di solitudini che cercano di realizzare sogni che finiscono con il non poter essere condivisibili con nessuno. Neanche con colei o colui che ne aveva sostenuto il conseguimento. Lo fa con la leggerezza necessaria ma anche con quel sottofondo di malinconia che nasce da un accurato mix di musica e immagini. Se poi si va a leggere la data di nascita del regista ci si trova dinanzi a un’ulteriore sorpresa: Chazelle ha 31 anni e dimostra di saper innervare quella che avrebbe potuto risultare una semplice esibizione di conoscenze filologicamente corrette, con un senso dello scorrere del tempo da anziano saggio. Sa cioè come farci entrare in una storia d’amore di cui possiamo anche immaginare gli sviluppi, regalandoci al contempo un mood del tutto personale in grado di far sorridere ma anche di commuovere fino ad invitarci a un invito che finisce con il rinviare alla classicità: suonala ancora Seb!

LA GRANDE ARTE AL CINEMA – STAGIONE 2017

Dopo il successo del calendario 2016 (Parte 1), col nuovo anno La Grande Arte al Cinema torna nelle sale italiane per la nuova stagione (Parte 2) che condurrà gli spettatori in un viaggio dal Rinascimento fino all’Arte Contemporanea con Raffaello, Michelangelo, Monet e Maurizio Cattelan.
Così per il 2017 Nexo Digital proporrà nelle sale italiane una nuova, appassionante ed inedita serie di eventi cinematografici che, a partire da febbraio e grazie alla tecnologia del cinema digitale, faranno vivere su grande schermo tutta la ricchezza delle mostre, degli artisti e dei movimenti artistici più affascinanti, innovativi, rivoluzionari e irriverenti della storia.
Il Cinema Italia proporrà gli appuntamenti secondo il calendario sotto proposto.
CALENDARIO PROIEZIONI
IO, CLAUDE MONET
14 febbraio 2017 ore 21
15 febbraio 2017 ore 18.30
Una nuova visione dell’uomo che ha inventato l’impressionismo, tra capolavori, lettere e scritti privati.
RAFFAELLO. IL PRINCIPE DELLE ARTI
4-5 aprile 2017
Grazie alla più sofisticata tecnologia cinematografica, a raffinate ricostruzioni storiche ed appassionate digressioni artistiche introdotte da celebri storici dell’arte arriva la prima trasposizione cinematografica mai realizzata su Raffaello Sanzio, un nuovo progetto firmato Sky, in collaborazione con i Musei Vaticani, dedicato a uno degli artisti più famosi di sempre.
MAURIZIO CATTELAN. BE RIGHT BACK
30-31 maggio 2017
La storia di uno degli artisti viventi più affermati, discussi, provocatori al mondo: un genio del nostro tempo che ha rivoluzionato l’arte contemporanea. Distribuito con Feltrinelli Real Cinema.
 MICHELANGELO. AMORE E MORTE
19-20-21 giugno 2017
Un nuovo docu-film sulla mostra SOLD OUT della National Gallery di Londra, sul genio del Rinascimento e il suo animo tormentato.
Ingresso unico € 8.