PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 15-09 AL 20-09

Mercoledì 16 settembre ore 21   

SEI VIE PER SANTIAGO di L. Smith  – ingresso € 4,00

Venerdì  18 settembre ore 21  

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Sabato 19 settembre ore 21    

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Domenica  20 settembre ore 21

MARGUERITE di X. Giannoli

(VENEZIA 72 – In Concorso)

Sei vie per Santiago (Walking the Camino)

Viaggiare significa lasciare a casa una parte di sé, per cercare tra le vie del mondo tutte le risposte intrappolate nei meandri del cuore; e al nostro ritorno, non saremo più gli stessi.

Lydia B. Smith vuole raccontare proprio questo attraverso il documentario Sei Vie per Santiago – Walking the Camino, in cui la filosofia del viaggio acquista un plus valore poiché va ad amalgamarsi nel contesto sacrale del pellegrinaggio, del cammino fatto a piedi, in una strada aspra e meravigliosa, che da Saint Jean Pied de Port attraversa il territorio francese e spagnolo, passando da Pamplona a Burgos, dal Convento di Sant’Antonio a La croce di Ferro e così via per ben 800 km, fino a raggiungere Santiago Di Compostela. Un tragitto conosciuto fin dal Medioevo, tra l’altro dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, in cui la regista riversa, come sulla tavolozza di un pittore, personalità differenti, ognuno con la propria battaglia, ognuno perso in una strada che ha bisogno di esplorare, spesso senza volerlo o senza saperlo.

Così Annie si lascia guidare dalla spiritualità e dalla competitività di stare al passo con gli altri, rendendosi infine conto che il suo corpo necessita di un passo lentissimo e meraviglioso, perché la vita va assaporata a piccoli sorsi. Per Wayne percorrere il Cammino di Santiago equivale ad onorare la memoria della moglie e nel rimembrare la sua assenza si fa accompagnare dal prete Jack. Misa ha intrapreso la sua lunga passeggiata pensando di ritagliarsi un momento per sé e restare sola, ma William sembra averle scombinato i piani! La tenace brasiliana Sam ha bisogno di ritrovare la forza e prendere in mano la sua esistenza; Thomas lo fa per sport, mentre Tatiana è spinta da una fede incrollabile e con coraggio si cimenta in questo viaggio col figlio di 7 anni e col fratello ateo Alexis, che spera di cambiare, ma alla fine sarà lei a trovarsi diversa.

La macchina da presa si muove con poetica destrezza tra i fili d’erba commossi di rugiada, prati illuminati dal sole, distese di grano che danzano al vento e piccoli ostelli in cui rifugiarsi con l’anima e il corpo, condividendo non solo il cibo, ma anche ansie, dolori, aspettative e gioie.

Credo di essere nata per fare questo film – racconta la Smith – Percorrendo il Cammino mi sono resa conto di quanto sia magico e sacro… non pensavo che sarei stata in grado di captare la sua magia. È un cammino verso il cuore, verso quello che c’è dentro.

La pellicola sa convogliare gli spettatori verso il ghirigori della storica via dei pellegrini, con l’aiuto di una colonna sonora spirituale, in grado di sintonizzarsi perfettamente al battito del cuore. Fa venire voglia di abbandonare tutto il caos della routine quotidiana, mettere da parte i rancori accumulati, le imprecisioni di una vita già programmata; azzerare il rumore del bla bla bla di fondo e alzare unicamente il volume della vita che scorre dentro: fluida, libera, già conscia di quale sia la sua meta.

La regista americana sa prenderci per mano e insegnarci che ognuno ha il suo passo, ma che tutti alla fine raggiungono la vetta; sa farci capire, senza giri di parole e filosofie trascendentali, che la tutta la nostra vita è un viaggio alla scoperta di noi stessi e che dietro la fine si cela sempre un nuovo inizio.

Marguerite

“Ci sono due modi di vivere la vita, la si può sognare o la si può realizzare”. Quale delle due strade abbia scelto la protagonista di Marguerite forse è solo un dettaglio, un gingillo inutile rispetto all’immensità nella quale l’opera ci risucchia, prendendoci per mano e coinvolgendoci in un danza folle, sfarzosa, comica come solo la drammaticità di una mente ambiziosa può essere, ed esilarante come la voce stridula della contessa, che canta, urla strappando suoni orfani di note attirando su di sé l’attenzione che basta a catapultarci nel suo castello.

Siamo nel 1921, a pochi chilometri da Parigi e l’aristocrazia si riunisce, come di consueto, nella dimora di Marguerite Dumont (Catherine Frot), in cui la musica classica è un pretesto per opere di beneficenza. Ma chi è questa bella donna che possiede in casa abiti di scena, libretti d’opera e animali da compagnia strambi quanto fondamentali per le sue apparizioni (dal boa albino al pavone)? Nessuno la conosce bene, però tutti gli ospiti sanno che è molto ricca e che ha dedicato una vita intera alla sua più grande passione: la musica. Piccolo dettaglio, ahimè, è più stonata lei di una campana! Il che provoca un’ilarità tacita tra i suoi ammiratori, i quali la incoraggiano con applausi e omaggi floreali, facendole credere di essere una diva.
……

Una pellicola divertentissima, con musiche mozzafiato e una scenografia stellare, capace di trasportarci davvero nell’Epoca d’Oro degli anni Venti, in quella Paris così luminosa, viva di cultura fluida e ideologie nuove, che però nasconde bene l’atrocità della solitudine e il marcio incallito di chi non ha il coraggio di dire la verità.

Marguerite, la cui figura tra l’altro si ispira ad una donna davvero esistita, crea adagio un mondo fatto di spettacoli, teatri, emozioni mai vissute se non tra le camere chiuse della sua mente e un angelo nero – il maggiordomo Madelbos (Denis Mpunga) – che sa custodire la sua follia, cullarla tra le braccia e preservarla dal male che la circonda.

Attorno a lei terra bruciata di falsità, maschere su maschere che non si sa più dove accatastarle. La finzione diventa un modo d’essere, si incolla al volto del marito, degli aristocratici amici del circolo fino a non staccarsi più e a creare un tunnel di non ritorno; un labirinto intricato di follie, ambizioni, verità nascoste e… delusione; una, ma fatale.

Cos’è la musica senza un pubblico? Cosa siamo noi senza l’occhio del mondo che perennemente ci mette a fuoco, che ci applaude quando ha voglia di farci sentire importanti, per poi annientarci sputando cattiverie?
Marguerite, pur nella sua delirante esistenza, grida a chiare lettere la salvezza dell’anima, quella che si concretizza nelle passioni che coltiviamo, talvolta non essendone capaci, convinti però che quella è la nostra strada, che ci farà stare bene e spesso, non serve propriamente aver stoffa, quanto possedere il giusto talento per “fingere di fingere”…

Con una citazione che il regista mette in bocca a Madelbos, vi invitiamo a meditare sull’essenza dell’arte, di qualsiasi natura essa sia, nella vita umana; non smettete di amare le vostre passioni, perché esistere è soprattutto insistere!

 

PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 07-09 AL 13-09

– Mercoledì 09 settembreore 21  –  IN UN POSTO BELLISSIMO di G. Cecere  – ingresso € 4,00
Sabato 12 settembre ore 21  –  TAXI TEHERAN di J. Panahi (ORSO D’ORO FESTIVAL DI BERLINO 2015)
 – Domenica 13 settembre ore 19 e 21TAXI TEHERAN di J. Panahi (ORSO D’ORO FESTIVAL DI BERLINO 2015)

In un posto bellissimo
“In un posto Bellissimo”, opera seconda di Giorgia Cecere,  quotata e apprezzata sceneggiatrice, girato ad Asti quale simbolo della vita sonnolenta e ripetitiva della  provincia italiana,  vuole essere il ritratto femminile di un’anima semplice, che ama delegare ad altri le sorti della propria esistenza. Interprete è l’attrice Isabella Ragonese che da corpo a Lucia, sposata con Andrea, madre e co-proprietaria di un negozio di fiori, dove svolge con diligenza il suo lavoro.
Lucia è imbrigliata in una passività che le fa mandar giù silenziosamente bocconi amari,  tra questi il tradimento del marito. L’incontro imprevisto con un giovane extracomunitario, con il quale instaura un’ embrionale relazione di solidarietà, metterà a nudo la sua autentica interiorità e determinerà una svolta nella sua esistenza…
Ottima l’interpretazione di Alessio Boni, nella parte del marito distaccato, perbene e ipocrita. Il film, nelle intenzioni dichiarate dalla regista in conferenza stampa, vuole essere la raffigurazione di un’ avventura interiore. Se è verissimo, come ha sostenuto la Cecere, che le vicende dell’anima, così ricche di rapide e gorghi, sono quelle che più appassionano, esse hanno un ritmo che nel film non brilla. La lentezza,  la ripetitività delle situazioni, gli spunti lasciati in embrione,  tolgono mordente ad una pellicola ricca di verità, pronta a cogliere in una situazione privata il dramma universale che caratterizza il nostro tempo: quello della paura, dell’incapacità di accogliere il più debole, del rifiuto di andare oltre il proprio ristretto perimetro, in un mondo che invece ci chiama a cambiamenti imprescindibili da un continente all’altro, dove gli extracomunitari, parte integrante del consorzio umano,  non sono che cartina di tornasole della nostra capacità di amare.

 

 Taxi Teheran
Jafar Panahi sfida nuovamente il regime. Il regista de Il palloncino bianco e Il cerchio, condannato nel 2010 a sei anni di reclusione e a venti di inattività per la partecipazione ad azioni di protesta contro il governo iraniano, riesce a dribblare la censura piazzandosi, solo, alla guida di un taxi, con una telecamera fissata al cruscotto.
Da lì – regista e autista – lancia uno sguardo acuto e senza filtri alla variegata fauna umana di Teheran: attraverso storie e atteggiamenti dei passeggeri che scendono e salgono dal taxi, tesse un quadro articolato e di complessità disarmante che ritrae non solo le contraddizione della sua città e di un paese ancora stretto nella morsa dei tabu e dei divieti, ma anche un’umanità che nonostante tutto continua a vivere di paure e di ideologie (vecchie o nuove), di passione e di emozioni.
Il cinema ai tempi della censura. Ovvero come un regista di fama internazionale può esprimersi quando il suo paese glielo ha vietato.
Finto documentario, Taxi Teheran ha in realtà alla base sceneggiatura e attori, nonostante l’impostazione estetica di spiazzante semplicità. Così come Jafar Panahi, gli attori ingaggiati hanno rischiato a loro volta andando contro i dettami del regime. Protetti (ma solo in parte) dall’anonimato concesso dalla totale assenza di credit, si sono accomodati sul sedile di un taxi e, di fronte alla fissità di una videocamera, hanno accettato di ritrarre le mille contraddizioni di Teheran.
Dal venditore clandestino di film hollywoodiani ed europei in dvd dall’animo cinefilo alle anziane signore che vanno di fretta con una boccia di pesci rossi fino al ferito che deve essere portato in ospedale assistito dalla moglie e che, ripreso dal telefono del regista, fa testamento: l’esistenza scorre davanti al parabrezza e allo specchietto retrovisore di un’auto che è unico set e che, metaforicamente, ha Panahi alla guida così come il film lo ha alla regia.
Con un’unica concessione biografica: la (vera) nipotina del regista, saccente e curiosa, che Panahi va a prendere a scuola. E che, senza lo zio, era a Berlino lo scorso inverno per ritirare l’Orso d’oro con cui il Festival ha premiato il coraggio e l’originalità di un film che non avrebbe dovuto essere girato. Dando voce alla passione cinefila e narrativa che si oppone a ogni totalitarismo.
Cinema militante, insomma, ma senza dare troppo l’impressione di esserlo. Lo sguardo di Jafar Panahi è dolce e guarda con condiscendenza le miserie e le convinzioni, ma anche quella vitalità nutrita di speranza che è motore del vivere quotidiano, del consumato “tirare avanti” pur fra le difficoltà di ogni giorno. Certo, l’impostazione narrativa risulta di difficile digeribilità artistica: è arduo appassionarsi di fronte alle vicende di illustri sconosciuti che aprono una portiera per salire e la riaprono poi per scendere dopo aver snocciolato frammenti di vita, di ideologia, di follia a volte.
Ma è proprio l’assenza di giudizio e di sarcasmo nello sguardo del regista che riesce a oliare i rugginosi meccanismi di un film così semplice in apparenza, eppure così ostico: la finzione mostrata da Panahi sembra superare in realismo la verità stessa. Una verità di cui il regista, seduto alla guida, sembra mettersi al servizio così come fa un taxista al servizio dei suoi passeggeri. Portandoli a destinazione e ascoltando le loro storie, senza suggerire loro dove andare e – soprattutto – senza supponenza di fronte alle loro debolezze.
Come a ricordare che, in fondo, siamo tutti sulla stessa barca. O sullo stesso taxi.

 

PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 02 AL 06-09 SETTEMBRE

Mercoledì 02 settembre ore 21  –  L’ULTIMO LUPO di J.J. Annaud – ingresso € 3,50

Venerdì 04 settembre ore 21  –  IN UN POSTO BELLISSIMO di G. Cecere

sabato 05 settembre ore 21  –  IN UN POSTO BELLISSIMO di G. Cecere

Domenica 06 settembre ore 18.30 e 21 – IN UN POSTO BELLISSIMO di G. Cecere

L’ultimo lupo (Wolf Totem)

Predatori abili, vendicativi e allo stesso tempo riconoscenti fino all’inverosimile, i lupi hanno affascinato gli uomini, che in quest’animale vedevano destrezza e abilità tutte da imitare. Per i popoli guerrieri, questi predatori dagli occhi che quasi illuminano la notte più buia, erano delle divinità da venerare. La stessa Roma, secondo la leggenda, è nata proprio grazie al calore e alla dolcezza di una lupa che allevò Romolo e Remo, primogeniti della città eterna. Un tempo anche nel cuore delle montagne italiane dimoravano branchi di lupi, oggi ridotti a pochi esemplari. La settima arte, dicevamo, ha posato la sua macchina da presa su quest’animale e l’ha fatto attraverso generi diversi. Dal celebre Zanna Bianca (1991) a Balla coi lupi (1990) il cinema ha immortalato il momento in cui il cammino di un uomo s’incrocia con quello di un lupo, dando inizio a una danza intrisa di magia. Il plot è lo stesso anche ne L’ultimo lupo, uscito al cinema il 26 marzo 2015. L’azione si sposta nella Mongolia interna degli anni Sessanta, all’epoca della rivoluzione culturale cinese. Tratto dal libro Il totem del lupo di Jiang Rong, il lungometraggio stupisce per la bellezza delle immagini, realizzate anche per il 3D che, come afferma il regista francese Jean-Jacques Annoud, è efficace non nei campi lunghi e lunghissimi, bensì nei primi e nei primissimi piani. I paesaggi, e non solo i lupi, sono i veri protagonisti di questa pellicola dai toni impressionistici e carica di saggezza, che ha passato miracolosamente la censura del Governo cinese. Il messaggio de L’ultimo lupo è lapalissiano. La trama è semplice ma efficace. Chen Zhen (Feng Shaofeng) è uno studente di Pechino, acculturato, che poco conosce della Mongolia dove vive una comunità di pastori, ai quali Chen deve insegnare a leggere e scrivere, ma sarà quest’antico popolo a dare degli insegnamenti di vita al giovane che ritrova pace e serenità nella steppa, proprio come accade in Giappone a Nathan Algren ne L’ultimo samurai (2003).  Chen non si ribella apertamente agli ordini governativi ma con coraggio decide di salvare dalla morte l’ultimo cucciolo di lupo rimasto e di allevarlo come si fa con un cane. E…se proprio vogliamo trovare un difetto a questo film, possiamo individuarlo nella mancanza di personalità del protagonista. Bisogna tuttavia ricordare che L’ultimo lupo è stato finanziato dalla Cina e, quindi, Chen non poteva essere certo un ribelle. Al contrario il film si pone l’obiettivo di far riflettere i cinesi (e non solo) sullo spinoso problema dell’inquinamento ambientale. La pellicola, anche se manca di quel pathos proprio per le suddette ragioni, ci affascina grazie all’abilità del regista e a quella filosofia esistenziale che vede nel cielo e nella terra il principio e la fine del Tutto

 

In un posto bellissimo

“In un posto Bellissimo”, opera seconda di Giorgia Cecere,  quotata e apprezzata sceneggiatrice, girato ad Asti quale simbolo della vita sonnolenta e ripetitiva della  provincia italiana,  vuole essere il ritratto femminile di un’anima semplice, che ama delegare ad altri le sorti della propria esistenza. Interprete è l’attrice Isabella Ragonese che da corpo a Lucia, sposata con Andrea, madre e co-proprietaria di un negozio di fiori, dove svolge con diligenza il suo lavoro. Lucia è imbrigliata in una passività che le fa mandar giù silenziosamente bocconi amari,  tra questi il tradimento del marito. L’incontro imprevisto con un giovane extracomunitario, con il quale instaura un’ embrionale relazione di solidarietà, metterà a nudo la sua autentica interiorità e determinerà una svolta nella sua esistenza… Ottima l’interpretazione di Alessio Boni, nella parte del marito distaccato, perbene e ipocrita. Il film, nelle intenzioni dichiarate dalla regista in conferenza stampa, vuole essere la raffigurazione di un’ avventura interiore. Se è verissimo, come ha sostenuto la Cecere, che le vicende dell’anima, così ricche di rapide e gorghi, sono quelle che più appassionano, esse hanno un ritmo che nel film non brilla. La lentezza,  la ripetitività delle situazioni, gli spunti lasciati in embrione,  tolgono mordente ad una pellicola ricca di verità, pronta a cogliere in una situazione privata il dramma universale che caratterizza il nostro tempo: quello della paura, dell’incapacità di accogliere il più debole, del rifiuto di andare oltre il proprio ristretto perimetro, in un mondo che invece ci chiama a cambiamenti imprescindibili da un continente all’altro, dove gli extracomunitari, parte integrante del consorzio umano,  non sono che cartina di tornasole della nostra capacità di amare.

PITZA E DATTERI

venerdì 19 ore 21 – sabato 20 ore 21 – domenica 21 ore 21

Una piccola comunità islamica con sede a Venezia deve fronteggiare una crisi imprevista: il suo luogo di culto è stato evacuato dalle forze dell’ordine e ha lasciato posto ad un hair stylist unisex, gestito da una mussulmana turco-francese progressista che tiene “collettivi femministi”. In aiuto alla piccola comunità arriva un giovanissimo imam di origini afghane cresciuto in Italia: sarà lui a guidare il nucleo (anche “armato”) composto, fra gli altri, da un veneziano abbandonato dal padre e inseguito dalle autorità e da un curdo “che non può tornare ma solo e sempre andare”.
Dopo 
I fiori di Kirkuk, il regista e sceneggiatore iraniano di origine curda Fariborz Kamkari si cimenta con una favola multietnica ambientata in una Venezia lontana dagli stereotipi turistici, usando luci e colori per illuminare interni fatiscenti e fast food etnici, il negozio della parrucchiera come le calli della Serenissima. La colonna sonora, firmata dall’Orchestra di Piazza Vittorio, fa da ulteriore collante e la lingua italiana è un esperanto fra stranieri nel Bel Paese (compreso l’unico italiano). Il ritmo comico non è all’altezza di quello musicale, ma la narrazione è ricca di grazia e affronta tematiche scottanti, come il trattamento delle donne da parte degli integralisti islamici, in maniera ironica e gentile (ma mai condiscendente). Di ottima qualità la fotografia che vede la bellezza in ogni angolo senza diventare eccessivamente estetizzante.
Resteremmo comunque nell’ambito della commedia multietnica vagamente buonista se la parabola del veneziano Vendramin, convertito all’Islam e rinominato Mustafa, non rendesse le cose più interessanti e meno politically correct. Il suo smarrimento identitario, dovuto più alla “protesta contro il sistema capitalistico corrotto”, le banche e le agenzie di riscossione che alla convinzione religiosa, è quello di un Paese che ha perso i propri punti di riferimento insieme alle proprie radici, ed esige “rispetto per tutti, senza umiliazioni”. Il che, avverte Kamkari, rischia di condurre ad un epilogo “violento”.

 

Youth – La giovinezza

– venerdì 12 giugno ore 21
– sabato 13 giugno ore 21
– domenica 14 giugno ore 18.30 e 21
– domenica 21 giugno ore 18.30

“Una riflessione sul passare del tempo, sul nostro rapporto con il presente, il passato e il futuro. Il tempo che abbiamo vissuto, quello che attraversiamo e quello che ci resta. Il tempo fotografato e restituito dal cinema, il tempo che scandisce la musica. (…) Il tutto raccontato con lo stile personale e visionario che caratterizza Sorrentino sin dal primo film, tra ambienti che tendono alla rarefazione e situazioni che si tingono di surreale, leggerezza e disincanto.” (Alessandra De Luca, ‘Avvenire’, 21 maggio 2015)

DIFRET – il coraggio per cambiare

mercoledì 10 giugno 2015 ore 20.45
LOTTARE E’ SPERARE

sarà presente in sala AMNESTY INTERNATIONAL

“Prodotto da Angelina Jolie, vincitore del premio del pubblico sia al Sundance che a Berlino, ‘Difret’ ha un pregio essenziale: porta alla luce, quella del proiettore, una piaga non solo etiope, il rapimento e stupro per fini matrimoniali, nonché più in generale la questione dei diritti della donna. Lo fa con urgenza civile e morale, e gli interpreti sono all’altezza: basta e avanza per portarci in sala…… e speriamo che ‘Difret’ faccia crescere tutto il cinema africano.” (Federico Pontiggia, ‘Il Fatto Quotidiano’, 22 gennaio 2015)

PREMIO DEL PUBBLICO (SEZIONE PANORAMA) AL 64. FESTIVAL DI BERLINO (2014)

IL RACCONTO DEI RACCONTI di Matteo Garrone

venerdì 5 giugno ore 21 – sabato 6 giugno ore 21

domenica 7 giugno ore 18.30 e 21

“Finalmente cinema. Intensamente spettacolare, ricco di fiabesca autenticità, modernamente iperrealista. (…) Emozioni, sorprese, paesaggi incantati e pur verissimi, metamorfosi a non finire, sono il tessuto su cui poggia l’estro di Garrone finalmente pronto a riconoscere e sfruttare la natura artificiosa del cinema. Orrido e sublime, macabro e ironico si rincorrono all’insegna del femminile in mirabile equilibrio.” (Andrea Martini, ‘Nazione – Carlino- Giorno’, 9 maggio 2015)

IN CONCORSO AL 68. FESTIVAL DI CANNES (2015).

BIAGIO di P. Scimeca – mercoledì 3 giugno ore 20.45

“(…) ripercorre la ricerca spirituale di un San Francesco contemporaneo, il palermitano Biagio Conte (…) con stile spoglio e disadorno fino all’ingenuità. Dalla scelta di abbandonare tutto per vivere da eremita sui monti, alla fondazione di una comunità che si dedica a barboni e diseredati. Passando per una serie di episodi che corrispondono ad altrettante ‘stazioni’ nel percorso di fratel Biagio. (…) Di che far disperare anche gli spettatori viziati che siamo, incapaci ormai di accettare un cinema così diretto e a tratti didascalico. Eppure nel film di Scimeca, nato non a caso da un soggetto del protagonista, l’ottimo Marcello Mazzarella, vibra una tensione autentica che nasce dal doppio tentativo di azzerare tutto ciò che il mondo (il cinema) ci offre per cercare un’impossibile purezza originaria. Si può ancora fare cinema come facevano Rossellini o Pasolini? Se oggi tutto è già immagine, riflesso, simulacro, come restituire alle immagini la loro verginità? Ma è l’ostinazione del regista e dei suoi attori a rendere il film prezioso. In fondo Scimeca, come il Winspeare di ‘In grazia di Dio’, cerca la libertà di Biagio. Potrebbe non trovarla. Ma è pronto a pagarne il prezzo.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 25 ottobre 2014)